(IBIDEM) no.1 | Letture | Etnografia e politiche territoriali in un contesto di ‘concentrazione etnica’ Recensione a F. Pompeo 'Pigneto Banglatown. Migrazioni e conflitti di cittadinanza in una periferia storica romana
Paola Briata
Il volume restituisce gli esiti di una pratica etnografica che ha costituito il nucleo di una ricerca-intervento attivata su incarico del Comune di Roma nell’ambito del Contratto di Quartiere del Pigneto.
Nello specifico, si tratta dell’area del Pigneto-Casilino-Marranella-Torpignattara. Luoghi da tempo ‘sotto osservazione’ dal punto di vista sociale e politico: scenari dei film di Rossellini e Pasolini, periferia morale degli anni sessanta negli scritti di Ferrarotti, «immagine della periferia storica e popolare per eccellenza» (Pompeo, 2011, p. 15).
Siamo oggi in una ‘periferia’ in trasformazione, nata come spazio di servizio per la prima espansione della città, un tempo lontana dal centro sia in termini sociali, sia in termini territoriali (Belli, 2006): questo aspetto viene messo in evidenza già nelle prime pagine da Francesco Pompeo, curatore del volume, quando racconta dello ‘spaccateste’, il treno della ferrovia regionale Roma-Giardinetti che porta al Pigneto. Un tempo funzionale agli spostamenti del pendolarismo di provincia, oggi la visibilità della presenza di immigrati di origine asiatica ha trasformato lo spaccateste nel ‘trenino degli indiani’.
Il volume, a più voci – assieme a Pompeo partecipano alla scrittura Silvia Cristofori, Ulderico Daniele, Stefania Pepoli e Andrea Priori – si presta naturalmente a molteplici letture. Se ne propongono alcune maggiormente correlate anche a temi di riflessione propri della pianificazione territoriale.
Fin dalle pagine introduttive, si racconta di come affrontare il rapporto tra le comunità di immigrati residenti al Pigneto e le politiche sia stato, prima di tutto, un lavoro di smontaggio di una serie di ‘pregiudizi’ impliciti nel coinvolgimento di un gruppo di etnologi nel progetto. In linea con questa osservazione, si propone dunque uno sguardo finalizzato anche a riflettere criticamente su alcune delle assunzioni che, più o meno implicitamente, guidano le esperienze di pianificazione territoriale in contesti come questo.
Una prima questione riguarda l’assunzione della problematicità della concentrazione etnica. Al Pigneto si evidenzia ancora una volta la fragilità della categoria della concentrazione etnica (Fioretti, 2011), utilizzata nelle politiche urbane e territoriali per descrivere in termini emergenziali i luoghi caratterizzati dalla presenza immigrata e giustificare la pervasività di politiche di social mixing finalizzate a diluirla (Arthurson, 2012). La ‘presenza incontrollata’ e la ‘concentrazione eccessiva’ di stranieri sono emersi anche qui «come uno dei principali assi problematici anche fra i residenti e i commercianti dell’area pedonale del Pigneto, ovvero l’area in cui più evidenti sono stati gli interventi urbanistici realizzati dall’amministrazione locale» (Daniele, in Pompeo, 2011, p. 128). Temi e questioni che hanno determinato risposte anche di natura securitaria.
Al Pigneto, la presenza bangladese si attesta attorno al 16,5% ed è affiancata da un’altrettanto significativa presenza di immigrati di origine cinese (12,5%), oltre che da insediamenti rilevanti di molte altre etnie non ‘asiatiche’. Siamo dunque ben lontani da quel 70% di presenza mono-etnica che caratterizza un’altra Banglatown più volte evocata nel volume: quella di Tower Hamlets a Londra (Dench et al, 2006). La concentrazione è al tempo stesso connessa alle percezioni e al rapporto tra una dimensione locale e una di livello superiore – in questo caso, la presenza bangladese nell’area è nettamente più elevata di quella riscontrabile a livello cittadino. Al tempo stesso, altre percentuali raccontano dimensioni, anche qualitative, rilevanti nella restituzione dei caratteri di questa zona: tra gli immigrati bangladesi, la presenza femminile è quasi pari a quella maschile, i bambini sono inseriti nella scuola primaria, iniziano a emergere delle élites soprattutto tra i commercianti. Si tratta di una comunità di established, che pongono – anche alle politiche territoriali – il problema di come affrontare il tema dell’immigrazione in termini strutturali e non emergenziali.
Un secondo tema rilevante trattato nel volume riguarda il rapporto centro-periferia e i nessi tra gentrification e presenza straniera. Da un lato c’è l’immagine del Pigneto-Village, della «periferia storica recuperata per i ceti medi della conoscenza» (Pompeo, 2011, p. 49), in un processo di marketing territoriale finalizzato alla ridefinizione dei rapporti tra centro e periferia che si traducono in un sostanziale allargamento del centro, in un’espansione dell’Esquilino, il quartiere più ‘cosmopolita’ della capitale. A queste dinamiche sono associate quelle di gentrification che – gli autori tengono a sottolinearlo – sono solo apparentemente in contraddizione con l’insediamento degli immigrati. La popolazione migrante svolge infatti un ruolo cruciale nella valorizzazione e nella trasformazione sociale di questo territorio. Il nesso è quello riscontrato anche in altri quartieri centrali e semi-centrali degradati, laddove «l’inserimento dei migranti, perlopiù intensivo e legato ad un mercato illegale dei fitti, determina speculazioni fortissime, producendo insieme ulteriore svalutazione degli immobili e forte liquidità in nero [...], elementi questi ultimi che consentono ristrutturazioni facili» (Pompeo, 2011, p. 52).
Si pone poi la questione delle élites emergenti e della loro capacità di dare vita a forme di associazionismo dei migranti, nonché di intercettare il forte e articolato tessuto associativo autoctono, a volte riuscendo ad accedere al ‘mercato del lavoro interculturale’. Tenuto conto del processo partecipativo proposto nell’area, questo tema assume un significato rilevante soprattutto nel rapporto con le amministrazioni. In questo contesto è significativa l’esperienza promossa dalla Giunta capitolina guidata da Walter Veltroni con riferimento al dibattito sulla questione del diritto di voto amministrativo per i cittadini stranieri legalmente residenti a Roma. La Giunta ha adottato una soluzione che ha portato all’elezione, nel 2004 e nel 2006, di quattro consiglieri ‘aggiunti’, chiamati a rappresentare i migranti in base alla provenienza continentale e dotati di potere di consultazione all’interno del Consiglio Comunale. In questa zona della città, l’esperienza ha portato all’elezione di due candidati bangladesi. Al di là del valore simbolico, la ricerca portata avanti in questo volume evidenzia il sostanziale giudizio negativo emerso sull’esperienza. In particolare, immigrati e autoctoni hanno criticato «l’incapacità [da parte dei consiglieri aggiunti] di rappresentare la totalità della condizione dei migranti, di proporre iniziative che non fossero destinate soltanto ad una frazione di residenti, nemmeno corrispondente alla totalità delle collettività nazionali, e alcuni hanno alluso al rischio di un utilizzo strumentale della posizione acquisita. Questa percezione sembra corrispondere alla particolare strutturazione del tessuto associativo bangladese, senza che però negli amministratori vi sia piena consapevolezza delle ragioni strutturali e delle forme in cui tali esperienze maturano» (Daniele in Pompeo, 2011, p. 133). Note che ci fanno comprendere come le categorie di strutturazione e trattamento dei problemi dell’immigrazione siano ancora troppo condizionante da una visione omologante dei bisogni ‘degli immigrati’ nel loro complesso, senza tenere conto della diversificazione culturale, economica e sociale che può caratterizzare queste comunità e che è inevitabilmente destinata ad aumentare nella varietà dei percorsi di inserimento nella società di accoglienza (Briata, 2007).
Infine, in una fase politica in cui suscitano polemiche le parole del Ministro per l’integrazione Kyenge quando rivendica anche in Italia l’introduzione dello ius soli, preme sottolineare la contraddizione in termini evidenziata dagli autori del volume nel momento in cui si chiede agli immigrati di essere attivi in un ‘Laboratorio di partecipazione alla cittadinanza’, in assenza dei diritti di cittadinanza. Una questione strutturale che costituisce forse la differenza fondamentale tra la Banglatown romana e quella londinese, dove l’appartenenza al Commonwealth ha permesso agli immigrati di origine bangladese di accedere ai diritti di cittadinanza e di diventare una maggioranza con poteri politici all’interno del governo locale. Una situazione della quale sono state evidenziate luci e ombre (Koutroliku, 2012) che possono stimolare ulteriori riflessioni sulla ‘nuova autoctonia’ cui si fa riferimento nel volume curato da Pompeo, ma che ha comunque consentito alle élites della comunità di Tower Hamlets di prendere parte in modo attivo alla vita politica dell’area, includendovi le iniziative di sviluppo e trasformazione territoriale.
Paola Briata
Marie Curie Research Fellow
Bartlett School of Planning
UCL - University College London
E-mail: p.briata@ucl.ac.uk
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Arthurson K. (2012), Social Mix and the City. Challenging the Mixed Communities Consensus in Housing and Urban Planning, CSIRO Publishing, Collingwood.
Belli A. (2006), Oltre la città. Pensare la periferia, Cronopio, Napoli.
Briata P. (2007), Sul filo della frontiera. Politiche urbane in un quartiere multietnico di Londra, Angeli, Milano.
Dench G., Gavron K., Young M. (2006), The New East End. Kinship, Race and Conflict, Profile Books, Londra.
Fioretti C. (2011), “Torpignattara: banlieue italiana o spazio della coabitazione multietnica?”, in: Abitare l’Italia: territori, economie, diseguaglianze. Atti della XIV Conferenza della Società Italiana degli Urbanisti, Planum, The European Journal of Planning on-line.
Koutroliku P. (2012), “Spatialities of Ethnocultural Relations in Multicultural East London: Discourses of Interaction and Social Mix”, in Urban Studies, 49 (10), pp. 2049-2066.
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