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(IBIDEM) no.1 | Letture | Il ruolo sociale dell’Urbanistica normativa riparte dalla Sicilia Recensione a Agata Bazzi, 'La piazza è mia. Cronache dall’interno di un comune straordinario'
Laura Saija
Cosa succede quando tecnici urbanisti di alto profilo lavorano per sette anni (2005-2012) per promuovere l’interesse pubblico in un piccolo comune siciliano ‘in odore di mafia’?
Ce lo racconta una dei diretti interessati: Agata Bazzi, urbanista di alta formazione e con una lunga esperienza di dirigente pubblico nel settore urbanistico. Il comune è quello di Villabate, una cittadina di circa ventimila anime a pochi chilometri da Palermo, la cui storia amministrativa e urbanistica, che include un doppio commissariamento per mafia nel corso del passato decennio, è allo stesso tempo straordinaria e rappresentativa delle tante sfide poste alla disciplina urbanistica dal territorio siciliano.
Il lavoro descritto riguarda la redazione di un’ampia gamma di strumenti urbanistici: il classico Piano Regolatore Generale, i diversi strumenti attuativi relativi alle differenti aree urbane (le aree produttive, le aree di espansione residenziale, il centro storico), i piani integrati e strategici per lo sviluppo legati ai programmi di finanziamento europei.
La redazione di ciascuno di questi strumenti è raccontata (con una sintesi necessaria ma che fa un po’ rimpiangere una riproduzione anche parziale di elaborati tecnici) sia sul piano dei contenuti, sia su quello delle procedure, di pari passo a una descrizione delle trasformazioni di contesto (il primo commissariamento, la successiva amministrazione eletta, il secondo commissariamento, e l’Amministrazione successiva).
Il racconto è una preziosa condivisione da parte di chi, diversamente dagli accademici, è privo di obblighi produttivo-letterari ed è oggi impegnato da una nuova, e possiamo immaginare non meno complessa, sfida professionale di Assessore al territorio del Comune di Palermo. Di tale dono dovrebbero beneficiare almeno tre tipi di lettori: studiosi della mafia, urbanisti professionisti e ricercatori delle discipline che si occupano di territorio.
QUALI AZIONI ANTIMAFIA?
Lo studioso di mafia troverà interessante una storia che si intreccia con il nome dei Mandalà, famiglia illustre della cupola anni ’90, interessata alla costruzione di un mega centro commerciale a ridosso dell’autostrada Catania-Palermo. Di maggiore interesse per noi è la descrizione e la riflessione sull’ampio tessuto sociale e culturale che circonda i fatti straordinari (le indagini giudiziarie e i commissariamenti) e che in qualche modo li rende possibili.
Per quasi due secoli, infatti, il problema della mafia in Sicilia e dei suoi rapporti con tratti socio-culturali ‘distorti’ è stato dibattuto all’interno di un’antinomia che è spesso sembrata irrisolvibile: da un lato, la mafia come problema isolato, la cui eliminazione col bisturi all’interno di un corpo sano è responsabilità di un gruppo ristretto di professionisti (giudici, forze dell’ordine, etc.); dall’altro lato, la mafia come sintomo di un ampio e radicato sistema culturale ‘distorto’ e incompatibile con i valori della democrazia, con capacità rigenerative tali da rendere ogni azione repressiva efficace solo temporaneamente.
L’esperienza di lavoro della Bazzi è una testimonianza preziosa di quanto le antinomie siano poco utili ad affrontare la complessità del reale: ciò che il diritto definisce comportamento mafioso ha dei confini tecnicamente definiti, e rende possibile l’azione giudiziaria e quella amministrativa di commissariamento, le quali poi impediscono all’iniziativa privata di fare profitti ai danni dell’interesse collettivo; nella realtà, però, tali azioni sono insufficienti, e devono essere coadiuvate da azioni di ampio respiro mirate al cambiamento profondo dei valori e del senso di cittadinanza dei membri di una comunità. La lezione più importante, in questo senso, è che, al contrario del messaggio lanciato da tanti sceneggiati televisivi e da tanta parte di letteratura specializzata, le azioni anti-mafia, quelle tecnicamente definite e quelle ad ampio respiro, possono essere svolte al di fuori di una cornice di eroismo: come sistema di minute responsabilità diffuse, a carico di una pluralità di individui che ricoprono incarichi di natura ‘pubblica’ ma anche ‘privata’. Il lavoro della Bazzi e dei suoi collaboratori e colleghi ci mostra come ciascuno possa dare il proprio contributo, anche piccolo, nell’ambito di un progetto comune di democratizzazione delle scelte e delle mentalità diffuse.
Questo messaggio, lanciato da un dirigente urbanista, contribuisce a restituire all’urbanistica un importante ruolo sociale nei contesti ad alto rischio di contaminazione criminale, dove tale ruolo è spesso messo in discussione. In Sicilia è diffusa la percezione dell’inutilità di apparati urbanistico-normativi laddove l’illegalità diffusa di grande e piccola scala continua a essere la principale matrice della trasformazione territoriale. È dunque preziosa la descrizione offerta in questo testo di un’ampia gamma di strategie procedurali e organizzative per rendere l’Urbanistica – intesa come apparato normativo di cui una comunità si dota per regolare le trasformazioni territoriali – strumento di garanzia dell’interesse pubblico in rapporto dialettico con ciò che tradizionalmente non le compete (ossia ciò che sta fuori dalla norma) andando oltre la logica della ‘sanatoria’ (ossia normalizzare ciò che è nato al di fuori della norma). Ciò rende questo libro una lettura fondamentale per gli urbanisti non solo delle regioni tradizionalmente ‘mafiose’, se è vero quanto dimostrato da recenti indagini giudiziarie e ricerche sociali, e cioè che gli interessi immobiliari criminali siano ormai più interessati alle opportunità dei territori del nord più che al già depauperato sud.
L'APPROCCIO TEORICO A PARTIRE DALLA SICILIA
Da una prospettiva di ricerca, il libro permette anche una riflessione critica sulle principali direzioni di innovazione teorica in cui la disciplina urbanistica si è sviluppata proprio negli anni in cui si svolgono i fatti descritti. Il lavoro della Pubblica Amministrazione di Villabate tra il 2005 e il 2012 rispecchia il ruolo che gli viene riconosciuto dal quadro normativo siciliano, rimasto sostanzialmente invariato dall’Unità d’Italia a oggi (soprattutto se paragonato ad altre regioni italiane): il ruolo è quello di guida delle trasformazioni nell’interesse ‘di tutti’ con responsabilità di produzione di infrastrutture e servizi attraverso meccanismi di redistribuzione del profitto immobiliare privato. In molti hanno criticato questa impostazione considerata tecnocratica, preferendovi modelli alternativi di governance ‘dal basso’ in cui privati e cittadini sono chiamati a contribuire alla definizione delle scelte urbanistiche.
Da una prospettiva neo-liberista, hanno preso forma teorie e pratiche di scelte urbanistiche apertamente influenzate da grandi capitali privati; da una prospettiva progressista, hanno invece assunto rilevanza gli approcci partecipativi, che postulano la necessità di costruire le scelte sulla base della partecipazione diretta di tutti, soprattutto dei soggetti più svantaggiati. Il dibattito sulla governance, visto da Villabate, suggerisce di fare attenzione: avverte del rischio di ‘buttare il bambino (le conquiste normative fatte in decenni di storia urbanistica italiana) con tutta l’acqua’. Viste dalla Sicilia, le aperture decisionali offerte dai nuovi programmi di finanziamento europeo ai grandi capitali privati non sono una novità: rischiano di rendere legale quella che per decenni è stata di fatto una prassi consolidata di accordi ‘sotto banco’ tra politici e forti interessi particolaristici.
Dalla stessa prospettiva, un atteggiamento partecipativo oltranzista può essere altrettanto problematico: la presenza di un ‘humus culturale mafiogeno diffuso’ (prendendo a prestito un termine utilizzato in letteratura; Sanfilippo 2005) e la mancanza di una condivisione dei valori della democrazia, soprattutto nei gruppi sociali più svantaggiati, mettono in crisi le pratiche partecipative di natura habermasiana, di mediazione tra interessi tutti considerabili egualmente legittimi. L’approccio proposto dalla Bazzi guarda alle possibilità offerte dagli strumenti della tradizionale ‘cassetta degli attrezzi’ dell’urbanista per stimolare l’apprendimento collettivo dei valori della democrazia e della solidarietà. In questo senso, il lavoro della Bazzi si colloca all’interno delle più avanzate teorizzazioni urbanistiche sulla necessità di ripristinare il primato etico nella disciplina capace poi di informare quello tecnico-epistemologico, attraverso la capacità di formulare indirizzi d’azione nella contingenza (Campbell 2006).
AUTOBIOGRAFIA DEL RICERCATORE IN AZIONE
Vi è un ulteriore elemento d’interesse in questo libro, che va oltre i contenuti, ma riguarda il metodo di ricostruzione dei fatti, il racconto autobiografico e il valore che questo assume in un’ottica di ricerca. Nella sua postfazione, Daniela De Leo ascrive giustamente Agata Bazzi tra quelli che Schön definisce professionisti riflessivi, capaci di utilizzare le conoscenze che vengono maturate nel corso di un’azione per modificare e migliorare l’azione stessa. La ricerca urbanistica si è occupata molto di tali figure, con un’ampia gamma di studiosi (tra i tanti si pensi all’ampio archivio di profili prodotto da John Forester) che hanno documentato esperienze di apprendimento professionale nel corso dell’azione. In questo testo, manca però il tradizionale sdoppiamento dei ruoli tra studioso e professionista, ed è il racconto autobiografico ad assumere rilevanza euristica, attraverso una tecnica narrativa di intreccio tra esposizione dei fatti e costruzione di riflessioni critiche a valenza generale. Ciò potrebbe apparire come problematico (mancanza di distacco, neutralità e quindi obiettività delle riflessioni) se lo si giudicasse da un paradigma euristico empirico tradizionale. È invece uno degli aspetti più interessanti di questo lavoro per chi – come chi scrive – si occupa delle ricadute delle epistemologie esperienziali (le stesse che hanno ispirato Schön nella definizione del professionista riflessivo) non tanto sul mondo delle professioni quanto su quello della ricerca: con la scrittura di questo testo la Bazzi rientra appieno nella categoria dei ricercatori in azione, che costruiscono riflessione disciplinare significativa a partire dal proprio ingaggio con i problemi del reale e poi condividono – con modalità che non possono non essere autobiografiche – la propria esperienza perché possa contaminare quella altrui.
Letta l’ultima pagina del libro, alla Bazzi ricercatrice avrei ancora tante cose da chiedere. E non tanto suggerimenti di carattere generale nati dalla sua esperienza. Le rivolgerei domande che forzerebbero ulteriormente i toni del racconto verso una direzione autobiografica: che cosa, di ciò che ha fatto, farebbe oggi diversamente? Come e quando, nel corso della sua esperienza, sono maturate alcune delle riflessioni importanti che sono riportate nel capitolo conclusivo?
Che un lettore chiuda un testo con la mente piena di domande è sicuramente uno dei segnali di quanto il libro valga la pena di essere letto. La mia speranza è che esso aiuti la produzione letteraria in campo urbanistico ad abbracciare sempre più l’approccio autobiografico, come espressione di una ricerca che accetta la scommessa di colmare l’enorme gap che esiste tra il mondo della teoria e quello delle pratiche, attraverso la sincera riflessione sulle lezioni apprese nel corso di azioni mirate a migliorare il nostro mondo.
Laura Saija
Dipartimento di Architettura
Università degli Studi di Catania
E-mail: saija.laura@gmail.com
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Sanfilippo V. (a cura di, 2005), Nonviolenza e mafia, Di Girolamo, Trapani.
Campbell H. (2006), “Just Planning The Art of Situated Ethical Judgment”, Journal of Planning Education and Research, 26(1), 92-106.
Schön D. A. (1984). The reflective practitioner: How professionals think in action, Basic Books.
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