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Antiurbanesimo contemporaneo ITALIAN VERSION
Cristina Bianchetti, Angelo Sampieri
Helmond nei pressi di Breda, Mill’O nella periferia di Ginevra, Munksøgård a Copenhagen, Cohousing Rio a Stoccolma, le variegate forme dell’abitare collettivo disseminate a Berlino: luoghi nei quali per lo più si abita entro qualche forma alternativa alla proprietà e all’affitto. Piccoli gruppi di persone che non si capisce bene come si sostengano lavorando una terra in parte compromessa da usi precedenti.
E’ una delle forme nelle quali si è evoluta l’esperienza europea del cohousing che a sua volta è fatta di esperienze celebri e numerose: Wandelmeent ad Amsterdam, primo insediamento costruito nel 1977 in Olanda con orami più di 200 persone, e, in una specie di gara al gigantismo che paradossalmente emula luoghi ricettivi del turismo di massa: Aardrjik in Olanda (sale da pranzo accessoriate, palestre, bar, discoteca e sala per yoga, spazi in affitto), o nuovi quartieri modello, come Trudheslund a Copenhagen (33 famiglie), o ancora Stoplyckan, in Svezia, più di 400 persone e 180 appartamenti. Una varietà di situazioni, contesti e progetti che sconsiglia considerazioni d’assieme. Anche se pone qualche questione trasversale.
Quel che tiene assieme esperienze così diverse è un gioco contro la città. Protagonisti sono generalmente famiglie con bambini piccoli e anziani. Individui di ceto medio con qualche risorsa finanziaria, non solo culturale. Attori attraversati da una tensione evidente nei confronti di valori di giustizia ed equità sociale. In queste comunità ci si sente fuori da una società vissuta fondamentalmente come iniqua.
Emblematico il film realizzato da Nicolas Vernier e Igor Loup sull’esperienza Mill’o (Je partecipe, tu participes, il-elle participes, nous coopérons, 2009-2010) dove si ribadisce continuamente la ricchezza dell’abitare altrimenti; il sentirsi monade contro la società. Un abitante della comunità danese di Dreierbanken, intervistato per un altro progetto (Voices of Cohousing di Matthieu Lietaert, 2012) rafforza questo atteggiamento parlando di decisioni che oggi non si reggono su piani politici o economici, ma «sull’idea che poveri e ricchi possano vivere assieme».
E’ paradossale: forme spaziali che per alcuni aspetti, seppure debolmente, richiamano le enclaves entro le quali si rinchiudono, le minoranze agiate, che qui, al contrario, rinchiudono «poveri e ricchi». Una forma insediativa apparentemente arcaica che vuole diventare occasione per l’apprendimento di nuove forme di solidarietà e protezione. L’entre-soi è espressione di preoccupazioni identitarie, sempre più difficili da soddisfare in una società plurale e mobile.
Ma è anche un mezzo per costruire fiducia e gestire i rischi di una quotidianità difficile. Con qualche vantaggio: poter godere di più spazio di quanto un appartamento tradizionale offra, avere più gente intorno di quanto non accada nella famiglia tradizionale, godere di più tempo a disposizione. Il riscontro è molto lavoro e un sorta di eccitazione continua. Una forma estrema, si direbbe, del «superamento della solitudine» accompagnato da un eccesso di comunicazione e promozione via web. Non c’è molto di nuovo in questi esperimenti, reclamizzati come un nuovo modo di vivre ensemble. Laboratori sociali micro, dove si può osservare, in vitro, il funzionamento dei sistemi decisionali e della gestione dei conflitti tra persone che hanno deciso di vivere assieme. Dove l’alternativa tra «coopérer» e «faire il cavalier seul» costituisce una versione, non troppo variata, del dilemma del prigioniero. Ma le domande che pongono sul piano spaziale non sono irrilevanti.
E’ utile collocare queste esperienze entro il filone antiurbanista? All’inizio degli anni 60, Robert Glass sosteneva che l’urbanistica fosse il campo degli antiurbanisti «che cercano di foggiare le città in termini di immagini rustiche idealizzate». Un paradosso. Glass aveva in mente la tradizione anglosassone. Ed è indubbio che Owen, Silk Buckingam, Minter Morgan, Solly, Morris e Howard abbiano sentito la minaccia della città. Forse l’urbanistica non è stata solo campo degli antiurbanisti, ma sicuramente il rifiuto della città ha prodotto lungo tutto il XIX e il XX secolo importanti sperimentazioni spaziali, oltre che di politica sociale. Fondatori delle comunità modello, ispiratori dei movimenti di riforma, urbanisti si sono trovati qui accomunati. L’antiurbanismo contemporaneo, quello delle comunità di cohousing, riesce a fare altrettanto? Ci sono innovazioni spaziali di qualche peso? Osservando gli edifici è difficile cogliere qualche scarto innovativo. L’insistenza sugli aspetti ecologici nelle costruzioni porta all’uso di materiali naturali e di tecnologie appropriate, ma le soluzioni spaziali rimangono generalmente poco innovative: alloggi in linea o, più spesso, edifici pluripiano, con grandi spazi comuni a disposizione e grandi balconi-ballatoio che fungono da membrana di separazione dove è negoziato lo stare da soli e lo stare con altri. Edifici che sono macchine che producono energia e cercano di sostenersi (benché spesso godano di cospicui finanziamenti pubblici).
Tutto lo sforzo innovativo sembra depositarsi nel processo (ovvero nelle forme di istituzionalizzazione e promozione). Ma è sbagliato cercare uno scarto negli aspetti spaziali, guardando così a ridosso delle singole esperienze. E’ più interessante capire quali territori contribuiscono a ridisegnare queste enclave di diversa specie, protette dall’ideologia più che da sistemi di sicurezza. Dove sono collocate? Helmond si trova all’interno di un desolato territorio di de-industrializzazione. Mill’O, nella periferia più o meno scontata, di Ginevra. Altrove, su terreni agricoli che hanno perso valore o possibilità di produrlo. La loro ricorrenza disfa in un sol colpo molte retoriche del discorso urbanistico di questi anni: quelle della prossimità, della dispersione, della felicità di stare ognuno per sé. Il territorio che questi nuovi comportamenti «secessionisti», disegnano è estraneo agli imperativi funzionalisti, come a quelli dello sprawl. Esito piuttosto di nuove colonizzazioni di terreni difficili. Così, il recupero, il riscatto, il riciclo divengono questione centrale anche nelle pratiche di condivisione e contribuiscono a ridisegnare il mutamento dei valori che la società europea attribuisce all’abitare.
Cristina Bianchetti, Angelo Sampieri
• Queste brevi annotazioni si collocano entro l’ambito di una ricerca collettiva condotta da un paio di anni sui temi della condivisione nella città contemporanea Ovvero sulle implicazioni spaziali dell’irrobustirsi (episodico e temporaneo) dei legami sociali entro una società che rimane duramente individualizzata: forme dell’abitare condiviso, dell’impresa sociale, della predisposizione di servizi ai tempi della crisi. Si tratta di una fenomenologia molto osservata, accompagnata da una certa enfasi circa la necessità (ma anche la moralità) del fare con poco, fare fuori dal mercato e dalle istituzioni, fare con altri e per altri.
Riferimenti, considerazioni ed esplorazioni di questa ricerca che cerca di osservare criticamente le forme della condivisione nelle loro implicazioni spaziali sono sul blog: www.territoridellacondivisione.wordpress.com
Cristina Bianchetti
DIST - Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio
Politecnico di Torino, Torino, Italy
E-mail: cristina.bianchetti@polito.it
Angelo Sampieri
DIST - Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio
Politecnico di Torino, Torino, Italy
E-mail: angelo.sampieri@polito.it
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