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Diario 04 | Multiethnics
by Bernardo Secchi
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I recenti shocks elettorali cui l'Europa è stata sottoposta dovrebbero indurre a riflessioni che passino oltre lo strato delle tattiche e delle strategie delle diverse coalizioni, della loro maggiore o minore compattezza, della capacità comunicativa di ciascuna o dei singoli loro rappresentanti, delle immagini utilizzate, delle loro ideologie di riferimento. Manifestazione di un profondo disagio, gli eventi di questi ultimi anni dovrebbero portare il riformismo europeo a ragionare su aspetti meno sovrastrutturali di quanto abitualmente faccia. Dovrebbero soprattutto portare a delineare proposte politiche che investano più da vicino, con maggior forza e coerenza i termini reali dei processi sociali rilevanti e per questo anche (ovviamente non solo) il territorio e la città.
Per banale che possa essere c'è una certa difficoltà in Europa a convincersi che un lungo periodo, iniziato a metà del XVIII° secolo e, in particolare, la sua ultima fase, quella che in Francia viene indicata come il ciclo dei "trenta gloriosi", cioè dei trent'anni di sviluppo che hanno seguito l'ultimo conflitto mondiale, si è definitivamente chiuso ed un periodo profondamente diverso si è aperto. C'è una certa difficoltà a riconoscerne le differenze profonde ed a tirarne le debite conseguenze in termini di invenzione politica.
Si tende in particolare a rimuovere il fatto che durante il primo lungo ciclo, cioè grosso modo sino ai primi anni '70, l'Europa ha potuto godere di un'immensa riserva di forza lavoro sino ad allora insediata in aree agricole poco sviluppate e da due secoli almeno in forte crescita demografica. Un immenso processo di redistribuzione della popolazione europea si è attuato in quegli anni attraverso migrazioni imponenti che hanno portato principalmente popolazioni agricole verso attività industriali e di servizio, popolazioni delle campagne verso aree urbane e metropolitane, popolazioni del sud verso aree del nord, culture contadine ad integrarsi entro culture urbane. Per quanto forti fossero le differenze culturali tra un contadino dell'Aspromonte o dell'Alentejo ed un cittadino di Zurigo, di Francoforte o delle aree minerarie belghe, i gruppi umani e sociali che venivano messi in contatto si riferivano ad una matrice culturale e ad una storia in parte comuni.
Il processo di modernizzazione è stato colmo di fatica e di sofferenze: la letteratura ed il cinema ne hanno raccontato gli aspetti salienti. E' stato un processo ricco di conflitti e di violenza quale ritroviamo nelle pagine di Pasolini o di Bourdieu, ma politiche ed istituzioni del welfare state hanno esteso a buona parte di quelle popolazioni i diritti effettivi di cittadinanza integrandole a chi già ne godeva costruendo una generale percezione di sicurezza crescente: sicurezza del posto di lavoro, della pensione, dei servizi sanitari, dell'istruzione, della casa, delle vacanze, della vita in città ed in campagna.
A partire dagli anni '70, ovviamente con gli inevitabili anticipi e ritardi nei diversi paesi, il grande serbatoio dell'agricoltura più povera dell'Europa occidentale si esaurisce ed il sistema produttivo europeo deve ricorre ad altre strategie, allargando in senso spaziale il proprio mercato del lavoro: trasferimenti di imprese verso altri paesi e trasferimenti di popolazione da altri paesi in forte crescita demografica o da altre culture verso l'Europa. Molti altri fattori hanno ovviamente agito nei luoghi di origine, in quelli di destinazione e lungo gli itinerari dei nuovi flussi migratori. I fenomeni cui sto alludendo sono sempre ed inevitabilmente sovradeterminati e difficilmente possono essere ricondotti a poche cause sistematicamente ordinate. Per descriverli in tutta la loro articolazione occorrerebbe un nuovo Musil.
I recenti flussi migratori, che nella stragrande maggioranza si sono diretti verso le aree urbane e metropolitane per poi investire anche le città minori e, per "percolazione", molte aree rurali, hanno però fatto sì che in alcune regioni europee ed in alcuni settori produttivi la domanda di lavoro non trovi un'adeguata offerta, mentre in altre regioni e settori avviene l'opposto con la formazione di elevati tassi di disoccupazione specifica e con gravi conseguenze sul piano delle relazioni sociali. I nuovi flussi migratori investono infatti un sistema produttivo ed insediativo profondamente diverso da quello degli anni '50. Ciò che molte imprese richiedono non è più il lavoratore generico dell'epoca fordista; le loro domande sono assai più selettive; i luoghi e i settori di attività che esprimono una domanda di lavoro sono assai più dispersi di quanto non fossero in quegli stessi anni.
Politiche ed istituzioni del welfare state sono state nel frattempo sottoposte ad una energica cura dimagrante e non riescono più ad estendere i diritti di cittadinanza, integrandole, alle nuove popolazioni; spesso agiscono anzi in modi perversi concentrando povertà e sofferenza entro ristrette zone urbane e fasce di popolazione. Non solo, parte della popolazione europea ha ritenuto di poter sostituire, come ho già avuto modo di dire, politiche ed istituzione del welfare state con la ricerca di un diverso welfare positivo che ha modificato radicalmente la città europea. Oggi tutti i gruppi sociali, sia quelli che raggiungendo le città e le metropoli europee hanno raggiunto anche, attraverso mille sofferenze, livelli di vita migliori di quelli che hanno lasciato, sia quelli che hanno abbandonato la città cercando nuove forme di vita e di benessere nella città diffusa, sia quelli infine che si sono rinchiusi in quartieri esclusivi ed eventualmente recintati, esprimono il loro disagio negando, in forme spesso violente, il loro consenso a politiche riformiste che non hanno saputo comprendere in tempo i fenomeni ed i problemi dando loro un'adeguata soluzione. Tutto ciò non solo genera un diffuso senso di insicurezza, esaltato dalle retoriche dell'incertezza, del rischio e della competizione, ma mette anche a nudo le contraddizioni e l'ipocrisia di chi pretende allo stesso tempo flessibilità e stabilità: che gli immigrati, ad esempio, possano essere accolti solo se occupati stabilmente, ma che gli stessi immigrati siano disponibili nei confronti di un mercato che non intende in alcun modo garantire loro la stabilità del posto di lavoro e di ciò che ne consegue.
L'urbanistica non può ovviamente dare una risposta a tutto ciò. Forse ciò che può dire e fare è solo una piccola parte e marginale, ma non per questo bisogna rinunciarvi. Un punto di partenza può essere l'ovvia constatazione che, di fatto, si sono insediati entro il continente europeo gruppi che fanno riferimento a culture, ivi comprese le culture d'uso dello spazio, diverse: diverse da quella europea e diverse tra loro. Rimuovere questo aspetto è un errore grave che porta verso strade senza sbocco.
La città europea ha una lunga tradizione di accoglimento di popolazioni provenienti da altre aree del mondo e da altre culture. Venezia, Antwerpen, Amsterdam sono state in passato "città mondo", per usare l'espressione di Braudel, perché nel loro tessuto sociale ed urbano si rappresentava in tutta la sua articolazione l'intero mondo conosciuto. Più che terminali esse erano grandi "portali" aperti su spazi economici, sociali e culturali solo parzialmente conosciuti. Su questa apertura hanno costruito il loro prestigio e potere. Al loro interno strade e quartieri erano abitati spesso da specifici gruppi etnici e culturali che vi svolgevano le proprie specifiche attività e vi si rappresentavano attraverso propri edifici di culto od attraverso le sedi di particolari gruppi di mestiere. I diversi gruppi etnici e culturali condividevano però anche una serie di spazi entro il tessuto urbano; i mercati ne sono l'esempio più evidente, ma non unico. Tutto ciò arricchiva l'economia di queste città sospingendo una forte mobilità sociale e spaziale; le differenze etniche e culturali svolgevano, in questi periodi, un ruolo analogo a quello della bio-diversità in campo ambientale, rafforzando, eventualmente attraverso il meticciato, le società che sapevano valorizzarle.
La città e le campagne europee hanno vissuto però anche periodi di rifiuto dello straniero, di chiusura autarchica entro le mura immateriali della paura, di riduzione e semplificazione della propria struttura culturale e ciò ha limitato la mobilità ed impoverito nel lungo periodo le loro economie. La paura ha investito ripetutamente la città e la campagna europea, dando luogo a veri e propri cicli della paura, di diversa durata e diversamente tematizzati. La loro storia mostra che il rifiuto del diverso, variamente declinato nei successivi periodi e sostenuto da differenti retoriche, ha sempre corrisposto al tentativo dei gruppi dominanti di risolvere problemi interni. Accettare la differenza, darle un senso e valorizzarla, non vuol dire interpretare l'integrazione come omologazione dei comportamenti, l'omologazione ad esempio degli usi dello spazio e dei materiali urbani e neppure costruire una città divisa, fatta di ghetti ricchi o poveri, di quartieri esclusivi e recintati e di zone off limits, far passare la sicurezza da bene indivisibile e perciò pubblico a bene divisibile e privato, quanto pensare nuovamente a politiche che agiscano nel lungo periodo senza dar luogo a frizioni eccessive.
Un aspetto rilevante riguarda quantità e frequenza degli spazi e dei materiali urbani condivisi e forme della condivisione. Occasioni e possibilità sono oggi molto maggiori di un tempo, proprio grazie alla maggior articolazione e frammentazione delle società e delle città europee; esse potrebbero essere ulteriormente accresciute se le politiche del welfare fossero costruite in termini reali anziché monetari ed in modi più laici e prudenti. Paradossalmente sono luoghi condivisi i mercati etnici, gli hamam, molte aree del loisir giovanile, i luoghi del lavoro e, naturalmente, le strade e le piazze della città, i ristoranti ed i caffè, possono esserlo i luoghi dello spettacolo, gli eventi culturali. In Avenue George V, in uno dei quartieri più esclusivi di Parigi c'è un hamam, come al Marais ed in altre zone della città; i mercati, le vie o le zone del commercio etnico si moltiplicano in tutte le città europee; lo straniero, i suoi prodotti, costumi e riti divengono oggetto di consumo elitario o percepito come tale.
Forse una più attenta e prudente politica del welfare moltiplicherebbe i luoghi condivisi, pubblici o privati che siano; costruirebbe hamam, moschee e sale delle feste a partire dai quartieri ove risiedono popolazioni per le quali essi sono stati originariamente pensati, così come a Venezia si costruivano chiese ortodosse e collegi armeni. Una più attenta e prudente politica sociale non enfatizzerebbe l'incertezza, ma cercherebbe di estendere ad ogni gruppo sociale e culturale le sicurezze un tempo garantite dal welfare state: sicurezze positive, non repressive.
Una parte consistente dell'Europa sembra però essersi annoiata delle declinazioni burocratiche dell'egualitarismo e rincorre i miti dell'imprevedibile e del rischio come pratica liberatoria. Un'altra parte, altrettanto consistente, è percorsa invece da un forte desiderio di nuove distanze, di ristabilire invalicabili barriere tra gli individui ed i gruppi, tra chi è ricco e chi è povero, tra chi sta sopra e chi sta sotto, tra chi è del luogo e chi è straniero: accentuazione dei meccanismi di selezione/esclusione, ri-gerarchizzazione della società, ri-acquisizione di importanza di vecchi e nuovi valori posizionali. Le retoriche della paura fanno apparire questo disegno necessario ed urgente. Il bisogno di sicurezza, vero od immaginario che sia, può infatti indurre a rinunciare a parte di ciò che veniva considerato un diritto civile acquisito ed è a questa tendenza che l'insieme delle politiche urbane dovrebbe reagire con interventi limitati, che non investono i grandi principi, ma che toccano da vicino le pratiche del quotidiano cui il cittadino-elettore presta oggi una fortissima attenzione.
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