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Diario 07 | Saperi
by Bernardo Secchi
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Molti ritengono che uno dei connotati fondamentali della nostra epoca, ciò che contribuisce a distinguerla da epoche precedenti, sia il carattere diffuso del sapere: molteplicità di saperi specialistici, esito di una sempre più spinta divisione del lavoro e molteplicità di soggetti, ciascuno dotato di una propria esperienza, di una propria identità ed irriducibile autonomia, di un proprio specifico sapere. Divisione del lavoro e progressiva democratizzazione delle società occidentali, lungo tutto il ventesimo secolo e soprattutto nella sua ultima parte, hanno consentito al pensiero diffuso di emergere contrapponendosi al pensiero unico e dominante delle epoche precedenti. La città e la costruzione del suo progetto, intendendo il termine in senso ampio, sono campi di osservazione a questo riguardo assai interessanti.
La costruzione del progetto e delle politiche della città è divenuta negli anni recenti un campo aperto. Uso le parole con il senso che a loro dava Pierre Bourdieu per indicare un'area ove molti soggetti con differenti competenze ed esperienze, con differenti storie e backgrounds culturali, interessi e poteri, legami e relazioni con il resto della società sono legittimati ad esprimere le proprie interpretazioni e le proprie proposte. Ciò ha ovviamente consentito di cogliere intersezioni inaspettate con saperi tra loro apparentemente molti distanti, di costruire nuove costellazioni di saperi tra loro interagenti ed ha anche permesso a molti soggetti individuali o collettivi di disseppellire saperi che tendevano ad essere rimossi. Uno degli esiti è stata la dilatazione e dispersione dei linguaggi attraverso i quali essi si rappresentano e delle pratiche che ne vengono conformate.
L'urbanista, come altri studiosi, incontra diffusione e dispersione dei saperi in due principali occasioni spesso tra loro intersecate. Da una parte nel continuo e necessario confronto con aree di studio sempre più numerose, specialistiche e ristrette, con saperi esperti che invadendo il campo tradizionalmente oggetto dei suoi studi ne erodono l'identità. Dall'altra, nel continuo ed altrettanto necessario confronto con amministratori e cittadini variamente aggregati che, facendo spesso ricorso a saperi mal compresi e banalizzati, ridotti a mera retorica, di fatto occultano ciò di cui potrebbero essere unici portatori e cioè la specifica relazione con lo stato delle cose, con i caratteri della città o del territorio cui per esperienza si riferiscono.
Ho una certa esperienza di queste cose. Nella oramai lunga mia vita di studioso e progettista ho promosso e partecipato ad innumerevoli incontri formali ed informali, occasionali e programmati, con i cittadini e gli abitanti delle aree che, di volta in volta, divenivano oggetto dei miei studi e progetti, con rappresentanti di specifiche categorie, gruppi od associazioni, con amministratori e funzionari, con studiosi di altre discipline, cercando insieme a loro di capire le differenti situazioni che mi era dato di studiare, di costruire strategie, politiche e concreti progetti, di ridefinirne gli obiettivi, di cogliere nell'insieme di richieste, proposte ed argomenti che venivano avanzati aspetti tra loro convergenti od incompatibili ed incongruenti, di comporre scenari come possibili punti di fuga, valutando costi e presunti benefici di ogni azione, di ogni strategia di ogni progetto e di ogni politica.
In molti casi si trattava di riunioni nelle quali i ruoli dei partecipanti erano chiaramente definiti; in altri si trattava di passeggiate, sopralluoghi e seminari nei quali i ruoli venivano tra loro confusi o, perlomeno, non rigidamente ritualizzati. Incontri siffatti sono occasioni importanti per un urbanista; purché sappia riconoscere e riflettere a tre diversi livelli tra loro ovviamente indissolubilmente intersecati. Il primo, alla superficie delle cose, riguarda ciò che solitamente viene proposto o richiesto; il secondo gli argomenti che vengono addotti per suffragare proposte e richieste; il terzo il linguaggio e le forme discorsive mediante i quali richieste, proposte ed argomenti vengono formulati. Ognuno di questi livelli è mosso, agito, da concreti soggetti, con concrete biografie e posizioni, reali od immaginarie, entro la società locale. Mi sembra difficile ragionare sul sapere diffuso senza dirsi con chiarezza ove e come lo si coglie.
Chi, ad esempio, si accosti a queste occasioni ed eventi con la speranza di cogliere un sapere basso, diffuso entro la società, costruitosi attraverso l'esperienza nel tempo lungo, che si contrappone ad un sapere esperto o alto, rimane solitamente deluso. Spesso sono proprio i gruppi e le persone con una minor provvista culturale quelli che hanno dimenticato e rimosso il sapere basso, le tradizioni ed i comportamenti che esso aveva costruito, i limiti prudenziali che si era dato o che aveva rispettato. Gli esempi sono numerosi e, per quanto riguarda l'area della quale mi occupo, riguardano soprattutto le conoscenze cumulativamente costruite in un rapporto secolare e memorabile con il territorio, con le potenzialità ed i rischi connessi al suo uso, con l'arte del costruire e del produrre e con il suo declinarsi differentemente nelle diverse condizioni climatiche e di relativa abbondanza o scarsità di specifici materiali e risorse.
Sono state ricerche condotte dal sapere alto, in Italia da E.Benvenuto, A. Giuffrè, S. Di Pasquale e P. Marconi o, in campi diversi, da P.Bevilacqua o G. Beccattini, che hanno mostrato quanta sofisticazione vi fosse, ad esempio, nella tradizione costruttiva ed idraulica e nel "saper fare" di alcuni distretti e regioni; una sofisticazione spesso troppo disinvoltamente ignorata dai saperi codificati, dalle tecniche di più recente formazione, dalla progressiva ingegnerizzazione del territorio, dell'economia e della società. Si rimane spesso stupefatti nel constatare la rapidità con la quale il sapere tecnico accumulato in lunghi secoli dominati dalla consapevolezza dell'insufficienza dei propri mezzi relativamente ai propri obiettivi, sia stato cancellato dalla rapida fuoriuscita di intere popolazioni dall'indigenza materiale e tecnica della società rurale; nel constatare quanto questa cancellazione sia stata sollecitata dal sapere esperto. Con conseguenze spesso catastrofiche. La tradizione è divenuta, negli anni recenti, una maschera, spesso un'invenzione, che estetizza coprendoli aspetti assai più critici ed imbarazzanti della storia delle conoscenze e delle tecniche.
Le riunioni ed assemblee cui mi sto riferendo sono, d'altra parte, sempre più frequentate da una numerosa e variopinta serie di esperti in campi particolari e ristretti. Più che di specifici saperi essi appaiono spesso, ovviamente non sempre, portatori di uno specifico immaginario che propongono come una sorta di metafisica influente con il frequente aiuto di una grafica elementare, di buffi idioletti e di un atteggiamento fondamentalmente didascalico. Una serie di enunciati in grado di costruire cinture protettive nei confronti di altri attori che si muovono, peraltro, seguendo strategie professionali del tutto analoghe. La specificità del campo del quale si proclamano esperti diviene per loro un punto di forza perché fa supporre che alla ristrettezza corrisponda la profondità, il che non è sempre vero. Chi però osservi con attenzione i loro argomenti e linguaggi non tarda ad accorgersi che ciò che in queste occasioni, anche nelle più formali, viene proposto è un immaginario più che un sapere; un immaginario nel quale talvolta si incastonano reali elementi di innovazione.
La contrapposizione tra immaginario e sapere non data certo da oggi. Essa è, d'altra parte, imperfetta perché ogni sapere ha nelle sue pieghe più recondite un immaginario del quale spesso non è consapevole ed ogni immaginario si riferisce in modi spesso parziali e distorti ad un sapere che spesso ha dimenticato o rimosso. Le società contemporanee sembrano mosse, almeno nel campo del quale mi occupo, più dagli immaginari che dai saperi.
Alcuni di questi non sono altro che la proiezione sull'intera società di un interesse individuale o di gruppo; in altri è possibile riconoscere la declinazione estrema di una tendenza in atto; altri ancora sono immaginari di contrasto, costruitisi in una opposizione simmetrica ad altri immaginari; altri infine, forse più radicati, ma anche più nascosti, sono immaginari costruitisi lentamente nell'esperienza collettiva. Mi ha sempre stupito l'adesione di fondo di questi immaginari al nucleo fondamentale del programma dell'urbanistica moderna: al suo programma, anche se non sempre alle sue forme.
Per immaginario non intendo una rappresentazione di sogni o desideri, ma un costrutto dell'immaginazione. H. Putnam per spiegare cosa debba intendersi con questo termine ricorre al racconto di uno scalatore incordato in parte. Avendo della parete una visione parziale e forse deformata, con i mezzi e le conoscenze parziali a sua disposizione in quel momento di difficoltà, lo scalatore "immagina" di percorrere una via, ne valuta i rischi e le possibilità di successo e la scarta "immaginando" una seconda o terza o ennesima via i rischi e le possibilità della quale gli appaiono più convincenti. Sapremo solo se lo scalatore si è salvato o meno, non se le valutazioni che l'hanno portato a scartare alcune vie erano corrette; neppure sapremo, in caso di successo, se la prescelta era la migliore tra le vie possibili. La storia dell'alpinismo in generale ci dice che era solo una delle vie possibili.
L'urbanista e la città sono oggi in una situazione analoga ed analogamente rischiosa. Frastornati da molte voci che consigliano loro la via da ciascuno immaginata, sanno che tutte le voci debbono essere ascoltate, ma che la via non potrà essere costruita seguendo la superficie dei discorsi dei diversi partecipanti all'assemblea, non potrà essere il mero esito di un processo di negoziazione tra gli astanti.
L'idea di un progetto collettivo della città, sempre utilizzando i termini nel loro senso più ampio, mano a mano che le conoscenze relative a specifiche storie di città si accumulano, appare sempre più come una grande figura retorica; una storia limite, un irraggiungibile punto di fuga e ciò fa dell'urbanista riflessivo, se il termine mi è consentito, una figura tragica. Spinto, dall'osservazione della parzialità di molti saperi, ad avere del proprio ruolo una concezione elitista, nell'accezione del termine che era di Mosca, di Gramsci e di Bourdieu, una concezione spesso interpretata in termini di avanguardia, ma consapevole dei rischi connessi al suo scadimento in una insopportabile e moralista pratica di "grillo parlante", l'urbanista forse più di altri, ma non totalmente solo, è portato a riflettere sul posto che, nelle società contemporanee, dovrebbe occupare, per riprendere le parole di E. Morin, una "testa ben fatta"; un sapere cioè che non cerchi la propria autorevolezza nel progressivo restringimento del proprio campo di indagine e nella specializzazione, ma nella capacità di saper costruire collegamenti ed interazioni attraverso il tempo, lo spazio ed i saperi che li hanno percorsi; cercando di immaginare situazioni migliori di quelle che gli è dato osservare ed i modi per poterle raggiungere.
L'immaginazione ha avuto un ruolo importante nella storia della scienza moderna. È questa la ragione per la quale Putnam la richiama alla nostra attenzione sfumando i confini tra scienze e pratiche artistiche. L'immaginazione è ciò che può portare il progetto della città oltre la contingenza della negoziazione.
Le storie dell'urbanistica, fortemente debitrici delle storie dell'architettura e dell'arte e delle divisioni disciplinari entro le diverse accademie, sono tutte scritte come racconti critici di piani, progetti e politiche, di loro successi od insuccessi. Poche sono state scritte come storie di uno specifico gruppo professionale. Una storia dell'urbanistica occidentale, perlomeno dell'urbanistica degli ultimi centocinquant'anni, come storia di intellettuali che cercano di riannodare le fila di un discorso che costantemente tende a disperdersi nei mille rivoli della specializzazione o dei saperi locali, che di volta in volta, opponendosi al loro accostamento paratattico tenta di far interagire ed ibridare costellazioni di saperi e di pratiche tra loro diverse, che spesso ciò facendo, pagando un duro scotto nella reputazione del mondo scientifico, anticipa o quantomeno intuisce temi che diverranno oggetto di specifiche ricerche e saperi in epoca successiva, non è ancora stata scritta. Eppure a me sembra che sia solo nella eventuale verifica della positività di questo atteggiamento, più che nella recinzione del proprio campo, che l'autorevolezza dell'urbanistica può essere ricostruita.
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