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Etica della cura e progetto
Annalisa Marinelli
"Cura": l'anello di congiunzione tra qualità e welfare
Quando nel 1997 scrivevo la tesi che poi è diventata questo libro, la fortuna del welfare era in caduta verticale. Sembrava allora ancora più fuori luogo il parlare di "ethic of care" in relazione al progetto architettonico e alla città. Eppure era proprio nell'estraneità delle politiche di welfare, tradizionalemente adottate, al modello etico della cura (nel senso di "prendersi cura di -", "avere cura") che si poteva leggere una delle maggiori cause del loro declino.
Intanto va precisato in quale accezione ho utilizzato la parola "etica" in relazione alla "cura": entrambe si riferiscono a un agire e a un agire politico. La parola "etica" deriva da un'antica parola greca che porta in sé e il significato di comportamento, di azione; un'azione collegata al bene comune e, anche se nel frattempo ne è stata accentuata la caratteristica morale, è interessante che non si sia mai separato il suo senso dall'azione. Quindi non un bene astratto ma un bene che è legato all'agire e dunque vicino al corpo vivente, vicino alla parola cura.
La parola "cura" è ricca di significati a volte controversi: se da un lato vuol dire lavoro fatto con perizia e impegno, dall'altro significa anche affanno, preoccupazione; cura è quel valore aggiunto all'azione che fa "tremare e luccicare l'anima", parafrasando Nietzsche, rendendo l'agire buono, di qualità.
Nel dibattito disciplinare degli ultimi mesi si ricomincia a parlare di welfare indagandone nuovi modelli, nuove letture e cercandone il legame con la "qualità". Ma l'anello di congiunzione tra "qualità" e "welfare" è esattamente la cura.
Sono convinta che una riflessione più approfondita sul tema della cura possa aiutare a ridisegnare la strada che conduce verso uno sviluppo di qualità della città e del territorio e mi auguro che il mio libro possa essere un contributo a tale riflessione.
Il modello della cura come strategia di governo della complessità
Visto più da vicino, il mondo di significati che il termine cura suggerisce, costituisce un vero e proprio modello comportamentale, un differente paradigma del pensiero, un'etica. Il suo modello più proprio, forse il più consueto, ma sicuramente il più forte, è quello del lavoro di cura, cioè di quell'insieme di attività svolto prevalentemente dalle donne in casa e in famiglia, che nel mio libro ho definito "intelligenza domestica".
Non deve stupire l'associazione tra città e una pratica così intima qual è quella della cura. Già Platone sosteneva che insegnare ad avere cura di sé significava insegnare a occuparsi della polis, ad assumersi la responsabilità della vita sociale e politica della città.
Dall'esperienza dell'intelligenza domestica è possibile tradurre un codice, una sintassi che può uscire dalle case e proporsi come una competenza femminile sul mondo. Questa competenza, accessibile a tutti, uomini e donne, si può applicare nel lavoro (cosiddetto "produttivo"), nella politica, nel governo delle cose, nella pianificazione, nelle relazioni, nei progetti.
Il declino delle politiche di welfare è in parte attribuibile alla loro estraneità, al loro analfabetismo rispetto al codice della cura. Quanto maggiore è la distanza che ha separato le strategie di welfare da una cultura di cura, tanto maggiore è il fallimento di quelle politiche, di quei servizi, di quelle "armature urbane" e di quella cultura pubblica. Lo dimostra, per contrasto, la loro tenuta nei paesi scandinavi dove, seppure il ruolo della mano pubblica si stia ridimensionando da diversi anni, questo non ha incrinato la radicata cultura di servizio costruita in tanto tempo, e la pratica di "cura" del cittadino è tangibile in ogni angolo del territorio.
È pertanto utile studiare questo codice e acquisirne gli strumenti.
È parere concorde che l'ordine che ha descritto fin qui il mondo, non sia più capace di restituire la complessità del nostro tempo ed è nei vari abbozzi di risposta a questa contemporanea incapacità che si differenziano le molteplici posizioni sul tema. Se, infatti, la complessità è la chiave comunemente adottata per la lettura delle spazialità e delle temporalità della condizione contemporanea, sulle strategie di azione non c'è altrettanto accordo.
Spesso la complessità diventa alibi per un agire irresponsabile in cui la perdita degli Scopi Ultimi (quelli con le maiuscole) e l'acquisita consapevolezza dell'impossibilità di controllare gli infiniti contraccolpi del proprio agire, avallano l'incuria anche per l'immediato contesto, l'oblio della memoria, la chiusura nella sicurezza (che vuol dire sine-cura, cioè assenza di cura ).
All'opposto, è diffuso anche il richiamo alla responsabilità, ma nelle differenti declinazioni di questa parola si nascondono visioni a volte opposte.
Quando "responsabilità" richiama ancora l'ordine patriarcale e gerarchico del farsi carico di -, la sua invocazione si traduce spesso nella ricerca di modelli sempre più sofisticati di controllo della complessità all'inseguimento dell'infinito calcolo delle sue variabili e ancora nella ricerca della si-curezza.
In un altro verso va invece la ricerca di differenti aperture di senso per "l'agire responsabile": Gianni Vattimo, per esempio, afferma che nell'etica di un diverso linguaggio inteso come ascolto, apertura, comunicazione, la responsabilità può assumere il senso di rispondere-a piuttosto che di rispondere-di .
Proprio in questo punto si fa largo l'idea di etica della cura, come ho voluto chiamarla io : un modello di azione che contiene caratteristiche, procedure, prassi, tecniche e temporalità particolarmente adatte ed efficaci nella lettura e nella gestione della complessità.
Il codice della cura
Cercherò di illustrare alcune tra le più importanti caratteristiche di questo codice a partire proprio dalla gestione della complessità e dell'imprevisto.
In casa ci si trova ad avere a che fare con un sistema nel quale si giocano competenze molto diverse tra loro. Il curriculum vitae di una casalinga spazia da competenze di tipo economico (si dice, infatti, economia domestica) a saperi di pedagogia o medicina, si praticano contemporaneamente tecniche artigianali vecchie quanto il mondo e tecnologie più innovative che ormai riempiono le case, si produce linguaggio (la lingua madre), cibo, beni affettivi, memoria.
Questa politcnìa, già di per sé complessa, viene poi gestita non secondo procedure standard, prestabilite e consolidate, ma secondo temporalità molteplici nelle quali i frequenti imprevisti ridisegnano di continuo la scala delle priorità.
La cura è la scienza dell'occasione, come dice Ida Faré, la carezza a un bambino, la parola di conforto, la medicina, vanno dati in quel preciso momento oppure non solo non sono più utili, ma possono addirittura fare danno.
Questa flessibilità estrema ha come guida nell'agire il senso di responsabilità che scaturisce dalla fedeltà all'esperienza e dalla profonda cognizione del contesto e quindi dal sapersi mettere in relazione con l'ambiente, i materiali disponibili, i tempi e i corpi degli altri con i quali si interagisce.
Altra caratteristica dell'agire con cura si può definire del "rapporto con l'effimero". Nel lavoro di cura, infatti, non si producono oggetti durevoli, ma relazioni, cibo, gesti, linguaggio… insomma, beni che si consumano; per questo lo slogan delle casalinghe è "tanto lavoro per nulla".
La gratificazione in questo tipo di lavoro non nasce dalla produzione di un oggetto, ma dallo svolgersi stesso dell'azione di cura; l'accento si sposta dal valore dato alla mediazione dell'oggetto al valore della relazione tra i soggetti.
È proprio la relazione la matrice dalla quale si genera l'etica della cura. Una relazione non gerarchica come nella tradizionale (patriarcale) idea di responsabilità, ma asimmetrica, dinamica nella quale la carta vincente è l'autorevolezza e non l'autoritarismo.
Nella relazione di cura le forze dei soggetti in gioco si alternano di continuo. In questo senso va sottolineato che la cura non ha niente a che vedere con la sdolcinata retorica sulla maternità. La cura, infatti, è spesso conflitto, un corpo a corpo, un confronto a volte anche duro di identità e libertà contrapposte.
Agire con cura chiama in causa il senso della misura, il sapere fermarsi in tempo: troppa cura è dannosa tanto quanto l'incuria, le cronache sono piene di esempi di maternità che scivolano nell'abnegazione e poi nel gesto disperato, ma senza spingersi troppo in là, basti pensare a quanti figli sono rovinati dalle eccessive cure materne.
Questa ambiguità è una caratteristica intrinseca della cura tanto da apparire nella definizione stessa della parola. Aprendo un dizionario, infatti, si può leggere che se da un lato cura vuol dire attenzione, competenza, un'azione compiuta con impegno, dall'altro significa anche affanno, preoccupazione.
Prendersi cura della città e del territorio
Riassumendo, il paradigma della cura si articola in: complessità, flessibilità, gestione dell'imprevisto, senso di responsabilità, capacità di ascolto e di adattamento al contesto, valorizzazione della relazione, autorevolezza, senso della misura. Tutte insieme queste caratteristiche costituiscono una formidabile attrezzatura che nei secoli le donne si sono tramandate di madre in figlia. Oggi questa sapienza può essere capitalizzata per diventare una competenza spendibile anche in ambiti esterni alle mura domestiche.
Straordinari sono i benefici che l'adozione dell'etica della cura potrebbe produrre nelle azioni sulla città e sul territorio. Sono individuabili due livelli di interazione che sono un po' l'uno conseguenza dell'altro.
Nel primo la cura è l'ordine simbolico che informa l'etica professionale: il prodotto di questo piano di interazione è un mutamento dell'ottica capace di ribaltare significati e scale dei valori che sembravano stabili e acquisiti. Si pensi ad esempio al potere dirompente che il rapporto con l'effimero, esperito nella cura, può esercitare in una professione nella quale da sempre è centrale il rapporto tra progettista e opera creata. Il fascino dell'eterno che l'architetto subisce identificandosi nell'opera che realizza, ha spesso fatto perdere di vista l'importanza delle relazioni per le quali quello spazio viene concepito.
Su un diverso piano, più disciplinare, mettere a problema i temi legati alla cura significa dare voce a intere parti della realtà che normalmente non riusciamo a far parlare.
Nella pianificazione urbanistica la cura è solitamente vista come uno degli aspetti del welfare e dei bisogni da soddisfare attraverso le attrezzature urbane (e questo nei casi delle amministrazioni più illuminate, laddove le necessità di cura non vengono abbandonate totalmente sulle spalle delle famiglie). Il salto di qualità è però possibile solo se la cura diviene matrice delle azioni sulla città e sul territorio; in questo caso le cose cambiano completamente aspetto.
Per fare un esempio torno ancora alla Scandinavia. La questione dell'abitare in Svezia, dove "abitare" è un'esigenza che va oltre la questione della casa e coinvolge la qualità dello spazio urbano, è parte integrante delle politiche di welfare. Le questioni legate dunque alle trasformazioni dello spazio fisico delle città non trovano distinzione dalle azioni di welfare. Diversa è l'esperienza italiana nella quale esistono addirittura due distinti ministeri che governano separatamente i due processi.
In una pianificazione sostenibile i problemi legati alla vita urbana non possono essere affrontati come oggetti separati: la natura, la tecnologia, i trasporti, i materiali, la produzione, il consumo, la cura. Ciò che conta sono le relazioni tra questi nel rispetto delle loro differenti nature e temporalità.
Meike Sitzner , nel suo interessante intervento al seminario Donne e Città svoltosi a Napoli il 3 marzo scorso, sottolineando la necessità di assumere un'ottica diversa nel governo del territorio, esponeva un esempio illuminante.
Riportando dei dati riguardanti lo sviluppo sostenibile dei trasporti, sosteneva che nel 1970 il settanta per cento dei bambini di sette anni andava a scuola da solo, oggi lo fa solo il dieci per cento. Questo vuol dire che l'aver migliorato l'efficienza dei trasporti non ha significato migliorare l'autonomia di questa categoria di cittadini e, di conseguenza, la qualità della vita delle loro famiglie.
La qualità della vita dei cittadini è strettamente connessa alla cura, ma questa, non essendo un'attività quantificabile e monetizzabile, non entra a far parte degli input della pianificazione. Occorre ricucire questa smagliatura e questo lo si può fare solo assumendo la cura come matrice dell'agire professionale, un paradigma efficace nella gestione della complessità. Perché l'ingresso delle questioni legate alla cura dei cittadini tra gli indicatori che strutturano studi, piani e programmi sulla città, rende le cose molto più instabili, complesse, fluide ed è quindi necessario modificare profondamente le strategie di governo.
Fintanto che non si compirà questo passaggio, lo scollamento tra le buone intenzioni dei pianificatori e la reale felicità dei cittadini continuerà a persistere.
Autrice
Annalisa Marinelli è nata nel 1970, si è laureata in Architettura a Milano con una tesi elaborata all'interno della comunità scientifica "Vanda - osare pensare la città femmina". Ora vive a Roma, fa parte dell'associazione culturale "La Casa di Eva" e sta svolgendo un dottorato in Tecnica Urbanistica sui temi della riabilitazione urbana. Dell'approccio di genere ama soprattutto lo scompiglio che la centralità del corpo e il modello del quotidiano portano nelle prassi della professione.
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