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L'Europa delle città
Marco Cremaschi
Nel 2004 l’Europa è pervenuta al sostanziale compimento del processo di unificazione del continente; hanno aderito dieci paesi, in prevalenza piccole nazioni salvo la Polonia site geograficamente al centro del continente (ma politicamente all’Est), e di due isole mediterranee ancora più piccole. Pochi ulteriori membri tra i paesi dei Balcani, e forse qualche altro come la Turchia, si aggiungeranno nel futuro prevedibile, senza mutare la sostanza dell’equilibrio geopolitico.
La strategia economica che indirizza le politiche dell’Unione è definita a partire dalla Conferenza intergovernativa di Lisbona del 2000 che ha definito “un nuovo obiettivo strategico per l’Unione, allo scopo di rafforzare l’occupazione, la riforma economica e la coesione sociale nel quadro di un’economia fondata sulla conoscenza”. La speranza è di fare dell’Unione europea “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro ed una maggiore coesione sociale”. Il problema messo a fuoco erano gli scarsi risultati in termini di crescita e sviluppo a fronte del grande sforzo di armonizzazione dei mercati. L’Europa ha avuto successo nel creare il mercato unico e la moneta comune, ma cresce meno di altre aree geografiche. Il nuovo traguardo è ancora più ambizioso: far diventare quest’angolo di mondo l’economia più competitiva, giocando la risorsa della conoscenza e, insieme, il sistema più sostenibile.
Che ruolo hanno le città e il territorio in tutto ciò? Più di quanto si sia soliti pensare. Questa strategia pone una sfida all’organizzazione territoriale del continente che sollecita il ripensamento di reti, centri, strumenti e attrezzature; ancora di più, impone di considerare gli effetti combinati delle politiche comunitarie e degli stati membri e delle ancor più numerose iniziative private. Gli effetti sono ben manifesti in molti settori cruciali per l’economia. L’avvio dell’Europa ha creato nuove politiche pubbliche e ha liberato nuove energie in ambiti di mercato.
Per esempio, le politiche pubbliche possono essere molto influenti nel caso dell’energia. Nuovi metanodotti sono in costruzione, sperimentazioni sono in corsa sulle tecnologie di riscaldamento, sui trasporti, la riduzione dei consumi, l’esplorazione di tecnologie alternative come l’idrogeno. L’adozione di un modello energetico sostenibile da parte di mezzo miliardo di persone renderebbe obsoleta la mappa attuale delle risorse fossili. In definitiva, potrebbe incidere sui conflitti legati al controllo del petrolio mediorientale e sulla geo-politica imperiale che li giustifica.
Le conseguenze aggregate delle scelte di mercato sono esemplificate dal caso del traffico aereo e delle comunicazioni. Questi settori sono stati rivoluzionati dall’unificazione delle regolamentazioni nazionali e di settore e dall’introduzione di nuove tecnologie. D’altra parte, le attività più mobili si concentrano e le regioni si specializzano anche in virtù dei collegamenti e dei trasporti. Così, le attività finanziare crescono a Londra e Francoforte; intere regioni del Mediterraneo si trasformano in pensionati per inglesi o tedeschi. Per sapere se abitate in centro o in periferia d’Europa basta guardare una mappa dei voli low-cost, o dalla capacità del vostro provider internet.
Nei due casi, gli aspetti territoriali della costruzione europea sono vistosi, sia se si guardi alle politiche e alle loro in gran parte inespresse potenzialità; sia se si guardi agli effetti prevedibili dei processi in corso, se non già manifesti. Ma questo non vuol dire né che la costruzione europea sia completa né che ne siano condivisi e chiari gli esiti, inclusi quelli territoriali. Il processo di definizione dell’Europa è tutt’altro che concluso. Dopo un decennio di relativo entusiasmo giustificato dalle realizzazioni della moneta e del mercato unico, i governi nazionali stanno puntando i piedi e rivendicano maggior controllo sulle dinamiche comunitarie. Vecchie rivalità nazionali e nuove realtà geopolitiche rischiano di frantumare l’Europa politica prima ancora della sua costituzione.
Dal punto di vista storico, però, il treno europeo non ha smentito la promessa di ricomporre i blocchi e le ideologie che hanno diviso il vecchio mondo, a partire già dalla rivoluzione francese; e tiene alta la sfida alle forze di mercato globali sia pur con le armi incerte di forme innovative di governance istituzionale. Tutto questo fa parte, in modo contraddittorio, della necessità politica dell’Europa, uno dei pochi esperimenti di governo sopranazionale che regga la sfida dei tempi; ed è questo il vero motivo per cui da almeno un decennio la politica nazionale, come quella di altri paesi, si confronta ed è condizionata -nel bene e nel male- dalle iniziative prese a Brussel.
Ma l’Europa, ricorda il geografo francese Lévy (1997), ha anche una necessità geografica. Da qui la prima giustificazione per l’approccio territoriale. Un continente piccolo, simile a un imbuto per le barriere opposte da più lati da mari e oceani a differenza di altri continenti sterminati dove la frontiera è sempre stata mobile. Un continente appunto che ha costretto gli abitanti antichi a far fronte o a ricevere perennemente dei nuovi arrivati. Con il risultato di un continuo por mano ai limiti, di un incessante spostare e riformulare delle frontiere naturali e dei confini militari. Da sempre, genti e nazioni d’Europa sono costrette a negoziare gli spazi che considerano esclusivi, come pure i vincoli e le legature con gli spazi degli altri, integrando le differenze in identità più larghe dove il noi e il loro si comprendono per forza. L’Europa costringe le differenze politiche e culturali ad un continuo ‘lavorio’ nello spazio che, dopo i conflitti e le tragedie storiche, caratterizza l’irrisolta doppiezza fertile e irritante del policy-making di Brussel.
Questo aspetto introduce una seconda giustificazione. Il territorio europeo non è mai stato una tabula rasa, ma un denso network frutto della proiezione di molteplici astuzie politiche e, al tempo stesso, fonte di identità simboliche da giocare nel variegato spazio collettivo . Non a caso sulle banconote dell’Euro figurano acquedotti, ponti e portali, monumenti che rispecchiano l’orientamento ai traffici e alla comunicazione che stanno al centro della costruzione politica e mercantili dell’Europa.
In breve la tesi che si pone al centro della riflessione è che l’intersezione delle scale geografiche –aspetto peculiare delle azioni territoriali- presiede allo sviluppo del progetto politico dell’Europa, quello che fa dire a cittadini veneziani o di Barcellona di essere italiani o catalani e, al tempo stesso, europei. Nessuna contraddizione, se non il riconoscimento di una molteplice appartenenza. Dietro alle iniziative per le città si trova sempre più spesso il profilo di uno stato multiscalare: il comune, la nazione, l’Europa.
La molteplicità delle scale e delle appartenenze è anche il modello che spiega come nasca e si sviluppi in modo originale uno stile europeo di sviluppo del territorio. Un work-in-progress che -a differenza di altri settori dell’agire comunitario- ha scarsi riscontri normativi e istituzionali; ma un settore di integrazione comunitaria, comunque, imposto dalla necessità politica e geografica del territorio comune europeo.
Le vicende che qui riprendiamo sono state spesso raccontate sotto l’una o l’altra delle frequenti distorsioni che subisce il progetto europeo: la versione agiografica che enfatizza i miti e le retoriche nei quali si paluda il faticoso policy-making comunitario; la non meno facile critica alla complicazione, al deficit democratico o all’impaccio posto ai poteri autonomi degli stati nazione. L’Europa alternativamente dipinta come un eroe mitologico o un ciclope burocratico è solo una parte del senso comune europeo, forse non la più importante.
E’ necessario tenersi lontani da ambedue gli estremi. Gli entusiasmi sono fuori luogo, in particolare ora che appaiono evidenti le difficoltà della globalizzazione e le confliggenti visioni sul governo del pianeta. Non a caso le forze politiche sembrano destinate a ricomporsi secondo un nuovo clivage, tra chi crede che il prossimo secolo sarà dipinto con i colori della forza, delle multinazionali e dell’ideologia (malamente riassunto sia da sostenitori che da detrattori nell’aggettivo “americano”); e chi sostiene invece la necessità di un governo politico dell’economia e dell’ambiente mondiale. L’Europa –con le sue contraddizioni- è un esperimento in questa seconda direzione; ma è un esperimento misurato. Dal punto di vista finanziario –per esempio- si riscontra una tragica simmetria: l’Unione Europea e la guerra in Iraq hanno pressappoco il medesimo budget.
Le risorse a disposizioni della UE –poco più di 100 miliardi di € nel 2004- non sono esigue, ma nemmeno così consistenti come talvolta di lascia intendere. I confronti sono difficili, data la natura anomala del “centro” decisionale di Brussel. Organismi “leggeri” come il Commonwealth o il Consiglio di Europa dispongono appena di pochi milioni per la loro missione. D’altra parte, il bilancio militare dei paesi europei è complessivamente il doppio di quella della Commissione; o, più coerentemente, i soli investimenti compresi nel ‘piano centrale’ del governo dell’India nel 1995 (la parte del budget federale in qualche misura riconducibile ad analoghe preoccupazioni) erano pressappoco 35 miliardi di €, cioè all’incirca quanto i fondi regionali (sia pur in altro contesto). Cifre solo indicative di una forbice che suggeriscono anche la non irrilevanza in assoluto delle risorse e al tempo stesso la limitatezza rispetto all’estensione degli obiettivi.
Le pagine che seguono raccontano i numerosi aspetti della costruzione di uno stile comune di governo del territorio in Europa. L’attenzione è mirata non ad enfatizzare la storia, l’ideologia o il conflitto procedurale, ma alla formazione “intermedia” di paradigmi e campi azione. Il testo prende spunto da ricerche e studi recenti, conclusi negli ultimi anni e compresi anche idealmente tra il trattato di Maastricht e la Convenzione europea, rielaborati dalla prospettiva della governance a geometria variabile che si sta sperimentando nel gioco europeo.
Ciascun capitolo ripercorre le vicende, quotidianamente richiamate dalla stampa, che hanno portato alla formazione dei principali ambiti di intervento comunitario: il disegno delle grandi infrastrutture, le iniziative per lo sviluppo regionale, il sostegno alle politiche urbane, lo schema spaziale di organizzazione del territorio europeo. Sono temi sottoposti spesso a trattamenti divergenti, enfatizzati da taluni o, al contrario, consegnati a frettolose svalutazioni da altri. Le pagine che seguono sistemano il bagaglio di conoscenze indispensabile e forniscono gli opportuni rimandi all’estesa letteratura disponibile per i riferimenti generali e gli approfondimenti necessari.
L’esposizione mette a fuoco tre nozioni -l’accessibilità, la partnership e il policentrismo- che costituiscono finalità generali delle politiche territoriali comunitarie e stanno già influenzando le politiche locali di comuni e regioni. Di ciascuna di queste sono esposti e valutati i risultati e le attese, e sono indicati i principali problemi. Si suggerisce inoltre che un filo unisca i diversi ambiti: è in corso infatti una sperimentazione cruciale di nuove forme di governance del territorio, con il risultato indiretto di un lento ma progressivo cambiamento del modo di fare urbanistica (pianificazione, sviluppo territoriale: anche i nomi cambiano) in Europa. I numerosi aspetti dell’esperienza comunitaria sembrano destinati ad influire (più delle riforme sempre rimandate) sulla costruzione di uno stile innovativo di governo comune ai territori d’Europa.
In definitiva, questo volume costituisce un’introduzione critica pensata per chi si interessa -per studio, professione o passione- alle vicende (soprattutto regionali, urbane e territoriali) dell’Europa comunitaria, e può essere facilmente integrata con la documentazione ufficiale e le presentazioni storiche e istituzionali, in particolare, con il Terzo rapporto sulla coesione economica e sociale dalla Commissione Europea (2004; in italiano, scaricabile anche dal sito europa.eu.int) per lo stato dell’arte delle politiche comunitarie; e con il Rapporto intermedio sulla coesione territoriale (2004; disponibile in italiano e sul sito della DG Regio).
Queste letture possono essere facilmente completate dalla crescente bibliografia su temi come la sostenibilità (ancora valido il Libro verde sull’ambiente urbano CCE 1990; il documento d’orientamento CCE 1998c; aggiornato dal recente rapporto CCE 2004d), la riqualificazione (su Urban, CCE 1997 e Palermo 2002, a cura di; le politiche urbane, Cremaschi 2003 e CCE 1998b); la governance urbana (Balducci 1999; Le Galés 2002; al centro anche del rapporto UNCHS-Habitat 2001).
Per dei capisaldi sulle vicende storiche dell’impresa comunitaria è disponibile il recente Castronovo 2004; per le politiche regionali, Viesti e Prota 2004 e il V Rapporto del Dipartimento per le Politiche di Sviluppo (DPS 2003); per l’aspetto territoriale e urbano si può risalire al rapporto Europa 2000+ (CCE 1995a); per i riferimenti generali sul policy-making, è giocoforza rimandare a testi generali quali Bache 1998; Hooghe e Marks 2001, Scharpf 1999, Wallace e Wallace 2000, nonché al libro bianco di Prodi sulla governance europea (CCE 2001c).
Conclusioni ottimiste
Dal trattato di Roma a quello di Amsterdam, da questo ultimo alla proposta di Costituzione preparata dalla Convenzione, il territorio si è progressivamente incuneato nel policy-making della Comunità. In questo percorso, lento ed esile quanto si vuole, avvengono alcuni slittamenti non irrilevanti nel riferimento territoriale delle politiche. Non si tratta di una marcia gloriosa, anzi; si tratta casomai di un progresso faticoso. La gestione di questi problemi richiede forti capacità di rappresentazione, di linguaggio e di vision. Il giudizio sulla combinazione di questi elementi nelle pratiche comunitarie è diversificato, e ultimamente prevalgono accenti negativi. Solitamente però si riconosce che la complicata macchina istituzionale comunitaria ha una discreta efficienza nel mediare soluzioni; anzi, a volte si giunge a sostenere che lavora meglio sotto stress.
Le prossime righe offrono qualche riflessione volenterosamente ottimista per valutare positivamente il percorso compiuto e le prospettive future delle politiche territoriali. L’ottimismo non è né di facciata, né di dovere; è solo cauto, per lo scenario preoccupante in cui versa il progetto dell’Unione. Il futuro delle politiche europee si presenta particolarmente difficile all’indomani dell’allargamento che comporta una certa difficoltà politica; e in un momento di divaricazione delle strategie tra le due sponde dell’Atlantico. Difficoltà di rilievo per lo stesso destino istituzionale, ma influenti anche su settori di intervento limitati ma che -come abbiamo cercato di mostrare- sono fortemente connessi ad altri più cruciali.
La prima ragione a sostegno di questo cauto ottimismo riguarda la maturazione avvenuta negli approcci alle politiche territoriali, e la loro traduzione in modalità di intervento. L’originaria preoccupazione degli anni Cinquanta per gli squilibri territoriali e il ritardo di sviluppo si spiegava sullo sfondo di economie continentali uscite dall’accidentato percorso -grosso modo coerente in tutti e sei i paesi fondatori- attraverso la modernizzazione industriale, l’inurbamento, le distruzioni belliche e la ricostruzione welfarista. Analogamente, le iniziali politiche di sviluppo e il loro modesto riflesso territoriale erano iscritti interamente entro i confini del paradigma dello sviluppo, della crescita occupazionale e del reddito. Il punto d’arrivo a cinquanta anni di distanza non sovverte interamente la nozione di squilibrio ma certamente la iscrive su un diverso sfondo: la preoccupazione riposa meno sul versante produttivo e più su quello territoriale e, in un certo senso, sulla qualità e la distribuzione dello sviluppo piuttosto che sulla quantità della crescita. Più recentemente ancora, l’idea di coesione territoriale introduce, accanto alla riduzione degli squilibri, alcuni obiettivi positivi: l’integrazione territoriale, la dotazione di servizi generali, l’accesso a beni collettivi non frazionabili. In questa prospettiva, la maturazione è innegabile come pure la varietà dei riflessi sulle iniziative territoriali.
La seconda ragione proviene dalla capacità delle politiche territoriali di dare visibilità ad ambiti e problemi territoriali mal rappresentati dal gioco tra gli stati membri e dalle opposte nozioni di sviluppo e arretratezza. Questo percorso è stato ricostruito nelle pagine precedenti nella sua non sempre lineare evoluzione, segnata dai problemi evidenziati nel corso dell’integrazione economica e politica. I punti di ‘faglia’ sono momenti di progressiva ridefinizione dei paradigmi e dei processi. Per esempio, la deindustrializzazione dei paesi di più antica modernizzazione confonde le categorie di sviluppo e ritardo: l’impatto dell’ingresso della Gran Bretagna sulle politiche regionali è un caso da manuale. Le stesse categorie saranno più tardi ulteriormente rimescolate dall’ internazionalizzazione dei processi produttivi (diretti ai paesi dell’Est o fuori dai confini dell’Unione). Il quadro non sarebbe completo se non si citasse la reattività delle istituzioni locali nelle comunità ex industriali (da Glasgow a Lilles, da Marsiglia alla Ruhr) che risultano alla lunga rilevanti e influenti sul policy-making europeo, di più o in modo diverso di quanto fossero state capaci in precedenza le aree povere (il nostro Meridione). Ma vanno ricordati anche eventi apparentemente collaterali, come i particolari rischi e vulnerabilità geografico-ambientali (dalle piogge acide alla gestione costiera) alcuni dei quali caratterizzano i paesi scandinavi; questi fatti hanno pesato nella riforma dei fondi e delle iniziative comunitarie a favore di un approccio più stretto sull’ambiente. Infine, l’innovazione tecnologica accelera alcuni dei processi d’integrazione di mercato (finanze, trasporto aereo) e rende obsoleti parte dei network infrastrutturali, creando una nuova faglia sulla quale si possono cristallizzare nuove disparità (e qualche nuova opportunità). Una parte della rete urbana dei paesi del nord gioca con insistenza sulle politiche dell’innovazione. In queste occasioni, sono nate o sono state modificate nuove politiche per le città e per il territorio; questa malleabilità è risultata finora una fertile risorsa per la maturazione del settore.
Un’altra ragione di ottimismo proviene dal riscontro di progressive linee di coerenza, nonostante tutte le differenze, nel discorso territoriale comunitario e dei paesi membri. La varietà degli spunti, dei percorsi, delle linee d’evoluzione è una caratteristica del discorso territoriale comunitario che ne riflette la costituzione decentrata e occasionale, ‘poligenetica’ appunto. Discrepanze e varietà che sono abbondantemente affiorate nella trattazione seguita fin qui. Nella ricostruzione storica sono stati però citati i punti di discontinuità e di evoluzione, quanto i momenti di ricomposizione. E’ indubbio, da questo punto di vista, che la stagione di Delors abbia rappresentato un momento importante nel processo che ha portato ad investire il territorio di una dimensione strategica. Certamente non siamo oggi in una fase in cui tattiche e principi si collochino con facilità in una vision politica che si appoggi ad una leadership forte e ad una strategia chiara, come è stato allora e come avrebbero forse voluto altri leader regionali (e, chissà, avremo forse nuovamente in futuro). Resta il fatto che -nella bottega europea guidata per decenni da priorità geopolitiche (l’equilibrio tra risorse), orientamenti ‘liberisti’ (l’integrazione dei mercati) e istituzionali (la negoziazione multilaterale tra gli stati)- il territorio ha offerto l’ancoraggio per le politiche ad orientamento sociale, per un approccio ‘volontarista’ (l’eufemismo francese per statalismo) e keynesiano, per l’integrazione settoriale. L’Europa dei popoli, delle regioni, delle città sono espressioni che rimandano a progetti politici diversi che hanno in comune però un aspetto: cercano di ispessire –sulla base di un discorso ideologico dalle forti tinte cristiano-sociale, a cavallo dei patrimoni ideologici delle grandi famiglie politiche europee- il radicamento locale delle nuove istituzioni.
Dunque, si possono indicare tre percorsi di crescita del territorio nelle politiche comunitarie. Il territorio entra a far parte di una piccola ‘grande’ narrazione dell’Europa nella quale la nozione monodimensionale di squilibrio è sostituita da elementi più ricchi e interpretativi; inoltre, consente di dare rappresentanza e voce politica a soggetti che -entro i paesi membri- esprimono domande più specifiche, di innovazione, sperimentazione e integrazione che “sposta” i confini delle politiche; introduce, infine, ‘enzimi’ compensativi nel progetto d’integrazione dei mercati, elaborando in particolare nuove forme di azione pubblica.
Misure indirette, che forse non prendono di petto la regolazione territoriale; ma, comunque, misure di un certo rilievo degli esiti territoriali delle politiche comunitarie.
Un ulteriore elemento di sostegno ad una visione ‘ottimista’ riguarda, più nello specifico, la formazione di un comune discorso europeo sul territorio attraverso le “scale” di governo e le differenti consuetudini amministrative. I capitoli precedenti hanno infatti riscontrano processi di progressiva europeizzazione delle politiche, degli stili, della cultura tecnica della pianificazione anche in ambito locale. Per prova ed errore, per esperimenti e aggiustamenti incrementali, approcci settoriali alle infrastrutture, ai divari regionali, alla riqualificazione urbana hanno sedimentato qualche comune ‘formazione discorsiva’.
In particolare, dentro al policy-making europeo appare un ‘filo rosso’ che attraversa i tre principi operativi descritti in precedenza: l’accessibilità, la partnership, il policentrismo. Sono principi che si rivolgono a finalità diverse e, pur vitali, presentano qualche incongruità. In particolare, assolvono con ambiguità il ruolo specifico di costruire un disegno del territorio, che è carente proprio laddove dovrebbe essere più specifico. La prospettive europea è debole infatti nell’individuare l’aggancio tra il locale e le grandi reti continentali, dove si misurano gli effetti territoriali delle politiche; ed è generica dove dovrebbe essere più strategica, cioè nell’esplicitare le poste, i prezzi, i rischi dei percorsi di sviluppo territoriale alternativi alla concentrazione nel ‘pentagono’ delle capitali. Questi sono gli aspetti più tediosi della retorica comunitaria, tanto più quando fanno da maquillage ai processi di trasformazione che sono in corso spesso con esiti territoriali radicali e critici.
Invece, gli stessi principi mostrano delle sottili capacità: di penetrare nelle pratiche della pianificazione a tutti i livelli, anche per i già evidenziati ‘vantaggi’ competitivi su altre politiche: di tesaurizzare la risorsa politica della mobilitazione delle località; di regolare la distribuzione dei privilegi d’accesso a reti o dotazioni di beni comuni; di sollecitare la sperimentazione transcalare tra livelli di governo per un maggior rendimento istituzionale. Uno smottamento è in corso: non si può ancora prevederne il punto di arrivo, ma è difficile sottovalutarne il rilievo e l’importanza.
Nell’avventura europea sono stati spesso gli esiti indiretti a rivelarsi i più fertili; nelle politiche territoriali, la loro incidenza si è rivelata ancora maggiore. Nella governance territoriale non sono in vista soluzioni forti, quelle grandi riforme apparentemente risolutive (che di rado si rivelano tali) che dovrebbero dare la scossa ai grandi problemi di assetto e organizzazione del continente; viceversa, crisi istituzionali dell’Unione sono sempre dietro all’angolo e possono condurre a ripiegamenti e bruschi arresti. Un disegno del territorio equo e competitivo richiede ancora consistenti sforzi politici e culturali in un percorso istituzionale in prospettiva forse meno favorevole, certo più accidentato.
Ma le vicende comunitarie del territorio sembrano offrire un insegnamento più generale: nella sequenza di aggiustamenti si intravede un metodo, si rintraccia una logica del cambiamento complessivo. Iniziative locali, approcci integrati, soluzioni di governance innovativa, progetti di territorio –tutte le esperienze che qui abbiamo passato in rassegna - non offrono solo soluzioni parziali e incrementali, talvolta limitate per ambizione o per occasione. Sono componenti del puzzle disegnato dalla mobilitazione progressiva delle località, dalla loro partecipazione al gioco delle politiche e della politica.
In questo senso, la novità non è che il disegno aggregato delle politiche territoriali assuma la forma di un nuovo livello di politiche federali del territorio, un pezzo aggiuntivo di ingegneria costituzionale nel corso di un’impresa lunga e sempre in divenire. La vera novità è la dinamica che creano tra ambiti locali e interventi. Laddove i territori si mobilitano, appare con crescente chiarezza come queste iniziative assumano la forma di politiche federative del territorio, pezzi del processo di apprendimento collettivo continuo e fertile che è a fondamento della costruzione dell’Europa delle città.
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