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11 | La città dei ricchi è ancora nella città dei poveri (1930)
Leonardo Ciacci
Esaurita (?) la classe operaia urbana, dissolta (?) la sua figura sociale, anche lo spazio urbano sembra aver perso la sua riconoscibilità di insieme di parti funzionali, destinate a gruppi e attività diverse e organizzate. L’accesso di massa, alla proprietà della casa, ha poi recentemente trasformato le storie familiari, in storie di individui, non più riconducibili a relazioni di contiguità spaziale, soggette piuttosto alla mobilità imposta dalle ragioni dell’investimento immobiliare. L’acquisto della casa condiziona il rapporto delle persone con lo spazio urbano e trasferisce la responsabilità di quella relazione sugli abitanti stessi; la città ha perso i suoi vecchi confini interni.
È sufficiente però perdere il lavoro o non poter continuare a pagare il mutuo, per scoprire drammaticamente quanto alte e resistenti siano tuttora le barbiere interne allo spazio urbano; alte e resistenti ancora oggi, pur se in modo non palese allo sguardo dei gesti quotidiani, come lo erano invece e in modo a tutti visibile nelle periferie operaie delle città, in Europa, poco meno di un secolo fa.
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Raccontare quanto dure fossero quelle distanze è il proposito di Wie Der Berliner Arbeiter wohnt, (Come vive l’operaio berlinese, citato anche come 'Problema attuale: come vive l’operaio' [1]), “film rivoluzionario” di appena pochi minuti, girato nel 1930 da Slatan Dudow [2] e prodotto nella Berlino (ancora) socialdemocratica dalla Weltfilm, una casa di produzione dichiaratamente orientata a realizzare strumenti cinematografici di militanza politica.
Wie Der Berliner Arbeiter wohnt aveva in realtà anche un altro obbiettivo: smentire il sogno mistificatore di Metropolis, il lunghissimo film realizzato da Fritz Lange tre anni prima, nel 1927. La sceneggiatura scritta da Thea von Harbour per quel film, pur infarcita di stereotipi - lo scienziato ebreo, l’amore sentimento più forte delle barriere sociali, il misticismo salvifico della fede catacombale, solo per citarne alcuni - ma anche di visioni sorprendentemente immaginifiche, per quegli anni - la città dei grattacieli, le autostrade urbane sopraelevate, la televisione - aveva fornito un’immagine potente al bisogno diffuso di un nuovo patto sociale urbano nell’Europa della fine degli anni ’20. Rappresentandolo con una stretta di mano tra imprenditore e operaio, il finale del film accreditava come possibile il superamento delle barriere tra la città del capitale, costruita sopra, al sole e la città del lavoro, nascosta nel buio perenne del sottosuolo. Due anni dopo, nel 1929, con la crisi mondiale originata dal crollo della borsa di Wall Street, il mondo scoprirà drammaticamente l’esito di quel confronto, nella realtà.
Una serie di contingenze sembra rendere di nuovo attuali le lontane, crude, drammatiche, sequenze in bianco e nero di Wie Der Berliner Arbeiter wohnt. Nel 1930 la disoccupazione in Germania era incontrollabile: vedere impiegati frugare nei cestini dei rifiuti alla ricerca di un biglietto di metropolitana, di un giornale abbandonato… di qualche cosa di ancora utilizzabile – sono alcune delle sequenze del film - era immagine di tutti i giorni. Mentre nel ricco quartiere delle case borghesi, i campanelli di ottone perfettamente lucidato erano meta frequente di vecchi mendicanti sciancati: «lo sgradevole visitatore», alla ricerca di una elemosina.
La “casa” dei berlinesi è il soggetto del film e due storie parallele ne forniscono l’interpretazione. In un seminterrato, dietro un’unica finestra aperta all’altezza del marciapiede, in città, è rintanata una famiglia di derelitti - padre disoccupato, madre precocemente invecchiata, due bambini denutriti e un vecchio nonno immobilizzato a letto, malato. Una grande villa urbana il cui giardino fiorito appare ben curato è invece la casa di un facoltoso e rubicondo ricco borghese che dedica il suo tempo al bagno nella schiuma del suo ben nutrito cane mastino: ride soddisfatto e offre alla cinepresa una figura per nulla impensierita dalla crisi che devasta il paese, contento di ostentare la sua condizione di privilegio.
Un cartello spiega la situazione: «Nelle caserme di abitazione delle metropoli molte famiglie devono dividere un unico, buio e insalubre piano. Cattivi seminterrati guastano la salute dei lavoratori. L’energia vitale dei bambini è distrutta dalle miserabili condizioni abitative»: questo film, «preso dalla vita reale» [3], lo fa vedere, mostrando la distanza di quelle situazioni dal privilegio di altre, ad esse contigue. I lavoratori che escono in massa dai cancelli della fabbrica verso i treni pendolari, sono uomini e donne con lo sguardo nel vuoto, come di persone malate, rese indifferenti alla sofferenza dall’angoscia per un futuro che non c’è. Sono immagini ricorrenti nel cinema politico di quegli anni [4], ma Wie Der Berliner Arbeiter wohnt, va oltre, sceglie di seguire i suoi personaggi fin nella loro casa e produrre così un effetto di identificazione e di reazione. Una lettera arriva per posta e comunica l’aumento dell’affitto: (più «4%»). Inizia così il racconto di due diversi destini.
«Contraddizioni immutevoli» fanno convivere nella stessa città le zone popolari con quelle borghesi, zone dove le parole aria e luce hanno significati profondamente diversi. I "giardini" dei bambini delle famiglie operaie sono i cortili delle “caserme d’abitazione”: «…terreno di coltura della tubercolosi».
Nel 1900 a Berlino all’1% delle casa singole (eigenheim) corrispondeva il 98% degli edifici alti per appartamenti (mietshaus): 77 persone in media per edificio. Sono in molti a preoccuparsene in quegli anni e a teorizzare soluzioni (il trabantenprinzip) di città organizzate per quartieri satelliti dove far vivere in case salutari e aperte al verde le famiglie operaie arrivate in città dalle campagne. O si immaginano città verticali (wohlfahrtsstadt), dove organizzare casa e lavoro in edifici alti e ripetuti, capaci di superare definitivamente sia i problemi prodotti dalla distanza tra il vecchio centro e la sempre più estesa periferia, sia la diversa qualità edilizia delle case per i poveri e di quelle per i ricchi [5].
E’ solo al cinema che la favola di Metropolis, riesce a stabilire una tregua tra capitale e lavoro, centro e periferia, ricchezza e povertà; tra le distanze del passato e la libertà del futuro. Nella realtà le barriere sono ben segnate, la città dei ricchi prospera dentro la città dei poveri. Il disgraziato padre della famiglia nel seminterrato ha uno scatto d’orgoglio, prova a ribellarsi allo sfratto, ma non può nulla contro i militari in divisa che lo spingono in strada con il suo carretto pieno di povere cose da portare …non si sa dove.
La città dei ricchi resta pericolosamente al centro della città dei poveri, quando la distanza tra ricchi e poveri si allarga, quando la legge appare ingiusta e la città è sempre meno una costruzione comune.
Leonardo Ciacci
Dipartimento di Progettazione e Pianificazione in Ambienti Complessi
Università IUAV di Venezia, Venezia, Italy
E-mail: ciacci@iuav.it
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[1] Cfr. Leonardo Quaresima, Cinema e rivoluzione. La via tedesca 1919-1932, Longanesi, Milano 1979, p.351.
[2] Regista, con Bertold Brecht, di Kuhle Wampe (1932)
[3] Dalle didascalie nel film.
[4] Vedi Was wir Schufen, Berlino 1928, sceneggiatura di Max Fecner e Richard Lohmann, regia di Hans Furmann o Die Städt von Morgen. Ein Film vom Städtebau (La città di domani. Un film sull'urbanistica), Berlino 1930, regia, soggetto e sceneggiatura di Maximillian von Golbeck e di Erich Kotzer.
[5] “Abbiamo degli architetti, tutto il resto è disperatamente cattivo”. E’ la risposta di Lange a Ludwig Spietzer che lo interroga sui giovani artisti, da «Die Film Technik», n. 2, 1925, ora in Pier Giorgio Tone, Strutture e forme del cinema tedesco degli anni Venti, Mursia 1978, pp. 125-126
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