(IBIDEM) no.1 | Dintorni | Istanbul, Taksim: il sotto-testo della resistenza urbana
Nadia Nur
Piazza Taksim, teatro delle manifestazioni che da settimane stanno accendendo il dibattito sulla democrazia in Turchia, è sempre stata nella storia di Istanbul il luogo simbolico della relazione tra politica e produzione dello spazio urbano. Gli interventi urbanistici sulla piazza e nell’area circostante hanno rispecchiato nelle varie epoche diversi modi di rappresentare l’immagine della città e di condizionare l’uso dello spazio da parte del potere politico. La rivolta che adesso si consuma nella piazza e nell’adiacente Gezi park ci racconta di un vincolo nonostante tutto mai dissolto tra cittadini e territorio urbano e dell’instaurarsi di un nuovo assetto nei rapporti di potere che intervengono nella trasformazione della città.
La variegata moltitudine che ha occupato il parco e la piazza per opporsi alla distruzione di Gezi, elevandolo presto a simbolo della sfrenata pianificazione neoliberista basata sulla distruzione del patrimonio storico e delle aree verdi, sugli espropri e gli sgomberi forzati, sull’espulsione dei poveri dal centro e sulla privatizzazione del suolo pubblico in nome di un rinnovamento urbano che punta alla ‘dubaizzazione’ di Istanbul, ha eletto la piazza a laboratorio eccezionale di ricomposizione della frammentazione sociale e delle diverse anime che coesistono, non senza conflitti, nella popolazione della città.
Non è più solo l’élite intellettuale che ha dato il via alla contestazione del progetto di rinnovamento di Taksim e di tutta la Municipalità di Beyoglu, espressione della Istanbul progressista ed europeista, ma è un mix eterogeneo, intergenerazionale e interclassista di persone che attraverso la resistenza e l’occupazione di Gezi park cerca di invertire il senso di marcia delle politiche che dal XX secolo hanno plasmato lo spazio pubblico dall’alto, proponendo di volta in volta un ensemble architettonico che rappresentasse l’immagine della Repubblica sul territorio cittadino.
Dall’essere uno spazio pressoché ignorato, a partire dal 1936 l’area di Taksim inizia a essere concepita dal governo della Repubblica come spazio in cui lasciare il segno della propria esistenza. L’ampliamento delle aree vuote, la demolizione della caserma di artiglieria ottomana, la costruzione di centri ricreativi e culturali e di un grande spazio verde, una promenade che attraversava diversi quartieri, sono alcuni degli interventi progettati dal francese Prost.
Negli anni ’50 cominciarono ad affiorare problemi di governance degli spazi pubblici. I nuovi migranti provenienti dall’Anatolia cominciarono a fare uso dei parchi e delle piazze, spingendo la classe media urbana che non apprezzava il social mix in luoghi chiusi e privati, dai quali eventualmente poter godere da lontano della vista di giardini e piazze. Piazza Taksim inizia allora a essere trasformata per agevolare la nuova geografia della mobilità disegnata dalle élites, che cominciavano a utilizzare l’automobile non più solo come veicolo privilegiato per fruire dei luoghi del loisir offerti dalla città.
Ma è negli anni ’80-90 che ha inizio la trasformazione del concetto di spazio pubblico che ha sotteso fino ai giorni nostri tutte le politiche urbanistiche top-down che hanno interessato l’area di Taksim, trasformandola in uno spazio sempre più inaccessibile e inutilizzabile se non come snodo per l’accesso ai mezzi pubblici (la piazza è capolinea di metropolitana, autobus, tram, taxi e dolmuş). In questo disegno urbano il parco di Gezi è ridotto ad appendice di Taksim ed è isolato dall’altra area verde, Maçka park.
È sempre intervenendo sul design della piazza che il governo di Erdogan (che prima di essere primo ministro è stato sindaco di Istanbul) vuole disegnare l’immagine della città globale e ipermoderna ma in continuità con l’impero ottomano, distruggendo Gezi park e costruendo al suo posto un facsimile dell’antica caserma di artiglieria (con funzione però di centro commerciale) e una moschea, oltre all’abbattimento del centro culturale Ataturk, già ridotto a edificio fantasma in seguito alle varie opere di ristrutturazione mai terminate. A completare il progetto, una rete di gallerie per la gestione del traffico intorno a quella che dovrà diventare una grande piazza pedonale.
Taksim occupa una posizione centrale nella geografia multiforme della città e nella memoria di tutte le generazioni di cittadini che nella storia della Istanbul moderna hanno contribuito a mantenerne e modificarne il carattere di spazio pubblico. Luogo privilegiato di molte celebrazioni, dalla Festa della Repubblica all’Istanbul Pride, punto di partenza e di arrivo dei cortei, Taksim è stata anche testimone delle pagine più oscure della storia della Repubblica, dalla ‘domenica di sangue’ del 1969 al massacro del 1° maggio 1977, in cui molti manifestanti sono stati uccisi e in seguito al quale la piazza è stata interdetta alle manifestazioni per la festa dei lavoratori (il divieto è stato abolito dal governo Erdogan, salvo poi reintrodurlo quest’anno).
Simbolicamente Taksim, il cui nome deriva dall’arabo taqsìm, ripartizione/divisione (a indicare la funzione originaria di smistamento dell’acqua dal nord della città che la piazza aveva nell’era dell’impero ottomano), ci restituisce l’immagine inedita della convergenza di diverse realtà sociali, nuove élite, ambientalisti, partiti di sinistra e nostalgici di Ataturk, nonché dei diversi gradi di rivendicazione e richieste, in un unico spazio che, ancora lontano dall’essere una piattaforma unitaria, adesso costituisce il sotto-testo necessario per la lettura della trasformazione della città e del suo rapporto con l’idea di stato e di società proposta dall’AKP, il partito al governo di matrice islamista.
Se la storia della piazza si può leggere come un racconto sequenziale a più mani, in cui ogni autore ha riscritto il testo dell’autore precedente, l’occupazione di Taksim adesso è un testo collettivo il cui plot si costruisce giorno per giorno, intrecciando le diverse storie che gli autori propongono.
Nei giorni della contestazione la piazza è diventata uno spazio di tensione per il dominio dello spazio pubblico: «La lotta per Gezi Park e piazza Taksim fissa una nuova definizione di cosa vuol dire spazio pubblico» – scrivono gli attivisti in un documento programmatico pubblicato in rete da Müstereklerimiz (i nostri beni comuni) –. «Reclamare Taksim ha distrutto l'egemonia dell’AKP su cosa deve significare questa piazza per noi cittadini». Quello che gli occupanti di Gezi park e di Taksim rivendicano in realtà non è una nuova definizione di spazio pubblico, bensì la difesa del carattere pubblico di uno spazio il cui uso è stato finora eterodiretto, e l’instaurarsi di un nuovo equilibrio in cui l’autorità dello Stato non interferisca e non si manifesti nello spazio urbano e nella vita quotidiana.
Per questo riappropriarsi oggi di piazza Taksim assume un valore che, oltre al simbolismo politico insito nella piazza, va a permeare il tessuto culturale del popolo turco. L’idea che lo Stato sia l’unico attore a decidere come trasformare la città e la vita dei suoi cittadini non è più compatibile con le aspirazioni di libertà ed emancipazione che accompagnano la stagione di crescita economica che il paese sta vivendo, e che è particolarmente evidente a Beyoglu, il municipio in cui si trova piazza Taksim e in cui si sono svolte le proteste.
La moltitudine che occupa Gezi park e piazza Taksim con la maschera antigas sul volto ha già acquisito il diritto alla città, ha già cambiato se stessa cambiando la città. Resistendo alla violenza ha contribuito a scrivere un nuovo capitolo nella storia della riappropriazione dei beni comuni, in piena ‘violazione del copyright’ del governo. Non è solo l’egemonia dello Stato nella produzione dello spazio urbano a essere sotto attacco, è l’intera idea di egemonia a essere messa in discussione.
Nadia Nur
Dipartimento di Architettura
Università degli Studi Roma Tre, Roma, Italy
E-mail: nadianur@yahoo.com
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