Diario 03 | In between
by Bernardo Secchi
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Dall'inizio degli anni '80 molti di noi hanno cominciato a percorrere nuovamente la città ed il territorio ed a descriverli. È stata un'avventura inizialmente guardata con sospetto cui hanno partecipato, tra loro intersecandosi sino a confondersi, sguardi differenti e sempre più numerosi: quelli dell'architetto, del fotografo, del cineasta e di molti altri artisti e studiosi. Un'avventura che ha mostrato come città e territorio non potessero più essere racchiusi nelle parole, nei concetti e nelle teorie che la tradizione ci aveva consegnato; come tanto meno il loro mutamento potesse essere guidato, eventualmente progettato con gli abituali strumenti dell'urbanistica europea. Un'avventura che ha privilegiato lo sguardo, il vedere da vicino, l'osservazione dell'ordinario, che ha fatto cogliere le differenze che attraversano le pratiche del quotidiano, che ha posto in evidenza le specificità del locale ed ha prodotto un universo di immagini per qualche verso stupefacente.
Eravamo in ritardo; la letteratura ed il cinema, per fare solo due esempi, da lungo tempo percorrevano quella stessa strada.
Negli stessi anni l'attenzione di molti si concentrava su un insieme di fenomeni che investivano in maniera globale le economie, le società ed i territori europei. Esse davano luogo a nuove relazioni tra le città ed i territori, a nuove geografie, a nuovi usi dello spazio che si rappresentavano in scenari seducenti e fortemente contrastati. Le città, tra di loro in competizione, cercavano politiche che consentissero loro di porsi in una posizione favorevole entro mercati percepiti come imprevedibili perché in rapida evoluzione ed in questa ricerca ricorrevano strumentalmente all'architettura ed all'urbanistica per veicolare significati e valori che contrastavano spesso con la loro storia, ma soprattutto con ciò che gran parte delle loro popolazioni attendevano.
Descrivere puntigliosamente la città ed il territorio appariva come un modo per mettere in luce una moltitudine di pratiche e di usi, da quelli più radicati nei luoghi a quelli più nuovi e sorprendenti, da quelli più pervasivi a quelli caratteristici di ristretti gruppi generazionali, professionali o culturali, che sembravano opporre resistenza all'uniformità di comportamenti e valori proposta dalla potenza dei media ed incorporata nella maggior parte dei beni di consumo. Ma d'altra parte appariva evidente a tutti come gli stessi comportamenti e valori riuscissero ad infiltrarsi, a percolare entro le pieghe dell'ordinario e come nessun luogo, nessun gruppo sociale, nessun soggetto potesse dirsene totalmente immune.
Questi due campi fenomenici sono bene illustrati, anche se in modo asimmetrico, nella mostra che Stefano Boeri ha costruito dapprima a Bordeaux e poi alla Triennale di Milano e che ha intitolato all'incertezza. Tra i due livelli della realtà messi in evidenza da tante ricerche degli ultimi venti anni, in between, c'è il vuoto; un'assenza di proposte politiche e di azioni pertinenti ed efficaci che genera appunto incertezza e che alcuni ritengono di poter riempire con una vuota quanto rumorosa retorica del progetto. Il vuoto lasciato nella mostra della Triennale vuole essere un'implicita denuncia di una retorica che copre tante idee mediocri.
Prima o poi però questo stesso vuoto dovrà essere colmato perché esso è indice di un forte distacco tra i comportamenti e le dinamiche dei mercati e delle istituzioni ed i comportamenti, i desideri e gli immaginari di gran parte delle popolazioni europee; un distacco che il riformismo europeo cui l'urbanistica si è sempre ispirata sta pagando in termini politici forse troppo duramente.
Se si osserva con calma cosa è stato proposto negli ultimi decenni per la città europea ci si rende conto che ogni progetto ed ogni discorso può essere ricondotto a due posizioni fondamentali, entrambe a mio avviso nei fatti deludenti. La prima ha ritenuto di potersi disfare di ogni visione comprehensive, di ogni piano, di ogni progetto della città, dell'urbanistica e di poter costruire un legame tra i due livelli della realtà con una politica di renovatio urbis, di progetti puntuali e limitati, di architetture che colonizzino il proprio intorno conferendogli nuovi significati, ruoli e funzioni. I limiti di questa posizione, a parte il suo eroismo spesso privo di humour, stanno, a mio avviso, nell'essersi lasciata troppo affascinare dai grandi esempi del passato prendendovi coraggio, nel non aver compreso la scala del fenomeno urbano contemporaneo, il suo dilatarsi e diluirsi in un contesto sempre più disperso e sempre meno reattivo al singolo fatto urbano, così come imprendibili ed invisibili sono oggi il potere e le sue tecniche di auto-rappresentazione. La conseguenza è stata il ritrarsi spesso dell'architettura entro occasioni costruite a ridosso di specifici attori individuali o collettivi, di aver coltivato un'auto-referenzialità incomprensibile alla maggior parte dei cittadini, di aver rinunciato a svolgere un sia pur cauto ruolo sociale.
La seconda posizione, sostanzialmente insofferente della discontinuità temporale e spaziale, ha invece ritenuto, non senza motivo, che la città tra diciottesimo e diciannovesimo secolo fosse uno dei migliori prodotti della cultura europea, conseguente ad un lungo processo di decantazione di materiali, grammatiche, sintassi e forme lungo il quale il continente ed ogni sua regione avevano maturato una propria chiara identità sociale e figurativa. Per questo ha considerato quei materiali, quelle grammatiche, sintassi e forme come la condizione "normale" della città e ne ha riproposto, seppur con mille variazioni, un ritorno alla logica costruttiva: grandi isolati, maillage, moderata gerarchia dei tracciati stradali, ripetizione di materiali urbani ben collaudati: il cours, il boulevard, la rambla, l'esplanade, etc. Questa posizione ha così rifiutato di prendere in considerazione le discontinuità prodotte dal diverso ritmo con il quale società, economia e territorio evolvono, l'insieme di linee di faglia che di conseguenza percorrono il territorio e la società contemporanea; ha rinunciato a farle divenire materiali di un nuovo progetto.
L'una e l'altra posizione ovviamente, ma per opposte ragioni, hanno considerano spazzatura la "città diffusa" cioè il campo che non riuscivano a dominare, nel quale l'eroismo progettuale diveniva gesto inutile e la devianza dalle buone maniere diveniva la regola. La devastante risposta di gran parte della popolazione europea ad una città e ad istituzioni che non prendevano in considerazione il mutamento delle loro pratiche ordinarie, delle loro domande, dei loro desideri e dei loro immaginari, ha portato entrambe le posizioni a non considerare la possibilità di forme insediative diverse dalla metropoli e dai reticoli urbani gerarchicamente organizzati; ha impedito loro di cogliere che forme diverse di territori diffusamente abitati sono, nella storia del territorio europeo, assai più frequenti di quanto si sospetti.
Valutare situazioni e condizioni entro le quali queste due posizioni hanno avuto successo od hanno fallito nei propri scopi è del massimo interesse; se non altro per capire che il grosso del problema sta altrove e cioè nel silenzio oramai più che trentennale di un comprensibile programma riformista e nell'urgenza di una sua ricostruzione.
Una questione a me sembra debba essere posta al centro di questa ricostruzione, almeno per quanto riguarda le politiche della città e del territorio; politiche peraltro che, entro lo stesso programma, considero centrali. La questione non è nuova, anzi, ma nuovo e più chiaro ne appare forse oggi il colore. Essa riguarda il rischio, che è l'altra faccia dell'innovazione; le diverse dimensioni del rischio e le diverse dimensioni dell'innovazione; un rischio che è tanto più percepito come incombente, quanto più il contesto evolve rapidamente spingendo verso comportamenti produttivi e di consumo, verso stili di vita e relazioni sociali percepite come innovativi; quanto più l'innovazione dà luogo a sempre più evidenti asimmetrie nella distribuzione del potere e delle risorse che esso riesce a mobilitare.
I programmi riformisti del passato avevano considerato la difesa dal rischio una questione pubblica; con qualche successo avevano costruito un'etica pubblica che assegnava allo Stato la proposta e la gestione di misure tese ad attenuarne se non eliminarne le forme più gravi: si trattasse del rischio di una carestia o di una aggressione, come di quello idro-geologico, della disoccupazione o della malattia. Ciò ha dato luogo alla fine, almeno in Europa, a due declinazioni fondamentali del programma riformista che, per usare le parole di Michele Salvati, possono essere indicate come il modello "mediterraneo", fondato su trasferimenti monetari tra parti della società accuratamente perimetrate e come il modello "nordico", fondato sulla fornitura generalizzata da parte dello Stato di beni e servizi reali finanziati dalle imposte. Il secondo modello ha posto come noto la città ed il territorio, nei loro diversi aspetti, al centro dell'attenzione molto più del primo, ma entrambi hanno portato a dividere lo spazio della città ed i comportamenti delle popolazioni che la abitano in spazi e comportamenti privati, da una parte e spazi e comportamenti pubblici, dall'altra.
Entrambe le versioni di questo programma trovano oggi seri ostacoli nella frammentazione della società, dell'economia e della città e nel venire meno di un'etica pubblica condivisa. Ciò che oggi appare evidente e praticabile è una forte graduazione della condivisione; la costruzione di sequenze che da comportamenti e spazi cui corrisponde un minimo di condivisione giungano ad investire spazi e comportamenti condivisi più ampiamente, anche se forse mai totalmente e definitivamente.
La società urbana contemporanea vive in between, in uno stato di perenne oscillazione tra differenti gradi di condivisione e questa continua oscillazione dei termini e dei limiti della condivisione di comportamenti, di pratiche e spazi, di valori e di immaginari sembra a me implicare un ripensamento generale del progetto della città. Solo quando tra le pratiche momentanee di ogni individuo e gruppo ed il grado di condivisione degli spazi di volta in volta investiti vi fosse un sufficiente grado di coerenza potremmo dire di aver contrastato i rischi che connotano la nostra epoca. Il tema, che non può essere ridotto alla difesa del ruolo pubblico od alla privatizzazione di ogni attività e luogo, appare a me assai più complesso di quanto non abbiano sinora inteso le due posizioni che ho prima richiamato, ma le descrizioni degli anni passati possono aiutarci ad affrontarlo.
Ma il programma riformista trova oggi un ostacolo anche nell'idea che un eccesso di attenzione al rischio impedisca di fatto l'innovazione o, se si vuole, nell'idea che le asimmetrie generino competizione e questa generi a sua volta innovazione. Il mondo contemporaneo sembra ossessionato dall'innovazione e per questo è disposto a sottovalutare il rischio. Chi osservi la storia della città europea deve anche convenire che i secoli passati sono stati assai più generosi con la città ed il territorio, che l'investimento nella costruzione delle sue fondamentali infrastrutture, dell'insieme di dispositivi che consentivano cioè, entro le diverse condizioni storiche, il processo di riproduzione sociale, è stato in passato assai più consistente di quanto non sia stato nel ventesimo secolo e soprattutto nella sua parte terminale; che lo stesso investimento più che la conseguenza è stato spesso il motore del progresso tecnico e di fondamentali innovazioni. Questione che non deve essere ridotta: erano infrastrutture, nel senso con il quale uso il termine, i luoghi ed i monumenti della "magnificenza civile", quanto i canali, le dighe, le ferrovie, le strade e le bonifiche, i teatri, i boulevards, ed i quartieri di edilizia popolare, gli ospedali e gli orfanotrofi, i parchi ed i giardini pubblici. Con la loro costruzione non sono stati solo prodotti manufatti della massima importanza, ma è stata organizzata la produzione di interi settori, sono stati selezionati operatori, sono state ridefinite intere aree tecniche e disciplinari. È attraverso questi investimenti e la lunga valutazione critica dei loro risultati che è stata incrementalmente costruita l'etica pubblica cui ho fatto prima riferimento. Gli ultimi decenni del ventesimo secolo hanno visto ingenti risorse riversarsi sulla città ed il territorio, ma entro programmi differenti, i risultati ed il punto di fuga dei quali appaiono oggi più chiari.
Il progresso tecnico ha ora il proprio motore in altri campi: nell'ingegneria della vita e della morte. Eppure la città contemporanea, proprio grazie alla varietà delle sue situazioni offre occasioni e stimoli formidabili al progresso tecnico; dalle tecniche atte ad affrontare le prossime crisi energetiche, a quelle della mobilità e comunicazione ed a quelle di controllo ambientale. Le soluzioni che a queste questioni verranno date nel prossimo futuro avranno profonde conseguenze sulla città ed il territorio. Da una riflessione che eviti le retoriche tecnologiche quanto quelle conservatrici e che sappia correttamente affrontare il tema di un'articolata e flessibile condivisione degli spazi e dei luoghi queste stesse soluzioni potrebbero essere correttamente indirizzate a congiungersi con un serio programma riformista.
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