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Diario 08 | Tre parole
by Bernardo Secchi
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Tre parole, apparentemente tra loro distanti, consentono, forse, di chiarire alcuni aspetti del passaggio tra città moderna e città contemporanea: auto-referenzialità, archivio, scenario.
Autoreferenzialità
Auto-referenzialità è termine oggi di frequente utilizzato con un senso vagamente dispregiativo. Architetti ed urbanisti vengono spesso accusati di un eccesso di auto-referenzialità, di costruire i propri progetti non a partire da un confronto con il mondo esterno, con i suoi problemi e le sue suggestioni, ma avendo riferimento ad una propria identità fatta di proprie immagini e modi di fare; un'identità "autoriale" spesso esibita oltre ogni ironia e legittima pretesa.
L'accusa, rivolta oggi sia agli architetti, sia agli urbanisti, ma non solo a loro, appare però ambigua perché il mercato professionale e la cultura dell'epoca sembrano piuttosto premiare le forme più perverse di auto-referenzialità e ciò dà luogo ad una folla di giudizi ed atteggiamenti nei quali diviene difficile distinguere fatti e frustrazioni personali da riflessioni più distese e generali.
L'auto-referenzialità fa parte della storia dell'architettura come di qualsiasi altra disciplina. All'inizio dell'ultimo secolo essa è stata al centro delle rivendicazioni delle avanguardie nei diversi campi artistici. È stata modo per rompere con la musica, con la danza, con la pittura o la letteratura a programma, con il voler far dire alle cose qualcosa che era loro esterno ed estraneo. Una posizione che ha percorso tutto il secolo ventesimo e che, a partire dall'inizio degli anni '60, insieme alla critica del carattere eminentemente ideologico di molte pratiche scientifiche e professionali, è stata nuovamente proposta con forza, seppur con diverse parole. La ricerca di una propria autonomia disciplinare ed artistica è divenuta da allora incessante. È sufficiente ricordare le pagine di Manfredo Tafuri o quelle, bellissime, del carteggio tra Aldo Rossi e Carlo Aymonino.
La musica parla di musica e l'architettura, depurata di ogni contenuto ideologico, parla e non deve parlare d'altro che di architettura. Non si tratta tanto di scindere la scrittura dai contenuti, quanto di ritrovare all'interno della propria storia i propri materiali teorici, tecnici e figurativi, le loro regole costitutive ed i criteri di loro modificazione e trasformazione, il linguaggio e la struttura discorsiva che consente di costituirli come filtro tra sé e la società; un filtro che di volta in volta diviene metafora, memoria, teoria, innovazione formale e costruttiva.
Nel tempo questa posizione ha subito alcune evidenti derive. Tralasciando come ovvio le forme più ingenue di referenzialità alla propria persona ed alla sua specifica storia, le indicherò semplicemente ed in modo allusivo come la metafisica dell'autore, del maestro, della tendenza e della scuola o della tentazione di riferirsi, sino ad auto-includersi per autodefinirsi, entro i principali movimenti artistici che hanno percorso gli ultimi decenni. Nessuna auto-referenzialità è pura ed innocente, come non lo è alcuna etero-referenzialità. Per buona parte del ventesimo secolo l'urbanista ha ostinatamente rifiutato l'auto-referenzialità. Se c'è qualcosa che divide le due figure dell'architetto e dell'urbanista, assunte come due idealtipi che mai si incarnano totalmente in figure storiche ed in specifiche vicende personali, è proprio questa condivisione o rifiuto dell'auto-referenzialità.
Il fare dell'urbanista è stato spesso ideologico, nel senso che al termine dava Roland Barthes, ricerca di qualcosa all'esterno del proprio fare che lo costruisse, giustificasse e legittimasse: le condizioni, i bisogni e le aspirazioni delle classi meno favorite dalla storia, la lotta alle distorsioni del mercato, alla rendita, al consumismo, alla cattiva amministrazione, la partecipazione. L'ecologismo che pervade molta urbanistica contemporanea ne è l'ultima rappresentazione.
Rifiutando ogni forma di auto-referenzialità, l'urbanista si è progressivamente allontanato dalle tensioni che avevano animato le avanguardie di inizio secolo e che pur erano state all'origine di un profondo rinnovamento del suo agire portandolo a ricercare con puntigliosità nei propri materiali, fisici e teorici, le dimensioni fisiche di un welfare individuale e collettivo del quale contemporaneamente altri studiosi stavano approfondendo le dimensioni economiche, sociali e politiche. Al punto estremo di questo percorso troviamo la dissoluzione e sparizione di ogni rappresentazione visiva del progetto della città entro le parole delle politiche urbane.
Una deriva che l'ha portato a porre sempre meno attenzione all'oggetto dei propri studi, cioè al progetto della città e sempre più alle regole secondo le quali lo stesso doveva essere costruito, anzi alle regole che dovevano ordinare il processo di sua costruzione; ad avere, di conseguenza, una concezione eminentemente formale e giuridica delle relazioni spaziali, quanto delle relazioni sociali; a svuotare lo stesso diritto del suo contenuto abbracciando una concezione procedurale del rapporto giuridico e riducendo anche questa alla sua versione burocratica.
Come se una città ed un territorio fossero infinitamente malleabili, privi di materiali specifici dotati di una propria sia pur flessibile identità, linguaggio e struttura; come se altrettanto malleabile e privo di punti di resistenza fosse il loro specifico sapere; come se il progetto della città fosse solo esito contingente di una negoziazione tra rappresentanti di gruppi più o meno vasti, le regole di interazione tra i quali possano essere sottoposte unicamente ad una critica interna, relativa cioè alle sole modalità di interazione tra i diversi gruppi.
Sto fornendo evidentemente una versione estrema delle due facce di una stessa figura: ad un estremo sta una possibile identità "autoriale", all'altro "la morte dell'autore" e l'emergere di un'identità diffusa definita da norme e regole ad essa esterne. In realtà, come ho già detto, non si dà mai auto-referenzialità od etero-referenzialità allo stato assoluto.
Non è sempre stato così. Basti ricordare i primi convegni del Ciam e le prime fasi del Movimento Moderno; oppure la lunga fase di costruzione della "città pubblica" europea negli anni tra le due guerre come lungo i "trenta gloriosi" nell'ultimo dopoguerra. È però chiaro che già a partire dagli anni '60 in Europa le due figure vanno allontanandosi, producendo identità e strutture discorsive differenti, per alcuni versi tra loro in opposizione.
Se osservo oggi le riviste di architettura e le stesse architetture che hanno investito le città europee negli ultimi decenni, colgo un tentativo, il più delle volte implicito, di svincolarsi dai grandi impegni del passato e da una specifica responsabilità nei confronti della società e del suo futuro. Sono poche le architetture recenti che con la loro stessa e sola presenza suonino critica nei confronti della società contemporanea ed abbiano il coraggio di prospettare un suo futuro diverso. Sono pochi gli architetti che ritengano di doversi impegnare in questa direzione. Ma lo stesso si può dire per gli urbanisti. Sono pochi i progetti urbanistici che con la loro stessa presenza suonino critica nei confronti degli esiti della distribuzione del potere, delle regole di interazione tra i diversi gruppi sociali e di interesse, degli immaginari di ciascuno. Affogati nelle noie dei loro tentativi di legiferare senza sapere bene per quale obiettivo gli urbanisti sono divenuti spesso un corpo separato dalla società ed alla deriva, come un tempo lo erano le navi dei folli.
L'archivio
questa posizione può apparire eccessivamente critica, ma non lo è. Essa mi porta a sospendere il giudizio e ad invitare a fare altrettanto. Durante la pausa potremo raccogliere progetti, costruire una sorta di biblioteca ideale del progetto da non utilizzarsi, come abbiamo sempre fatto, come collezione di exempla da additare all'ammirazione ed all'imitazione. Potremo avviare nei loro confronti un esercizio nuovo.
Collezionare ed archiviare exempla è tradizione assai antica: le vite di Plutarco, le vite dei Santi raccolte da Jacopo da Varagine, i fioretti di San Francesco… le odierne riviste di architettura e di urbanistica. L'exemplum, scelto sulla base di strumenti critici sovente lasciati nel non detto e inserito in un archivio, quale ad esempio inevitabilmente è, nel nostro campo di studi, una rivista, un saggio, una storia dell'architettura o dell'urbanistica, una conferenza od una lezione universitaria, viene proposto alla nostra imitazione e riflessione, il più delle volte dopo averlo collocato entro un ordine costruito con criteri geografici, cronologici o, meno frequentemente, tematici.
Costruire ed ordinare una collezione richiede criteri di selezione e criteri ordinatori. Inevitabilmente essi finiscono con illuminare gli oggetti che ne fanno parte. Ponendoli in una particolare luce ne costruiscono, almeno in parte, il senso ed il ruolo: quello che si ritiene abbiano avuto o ci si attende abbiano, ad esempio, nella trasformazione della città e del territorio. Raramente poi nelle collezioni compare la "folla oscura" dei progetti di autori rimasti nell'ombra; eppure la città ed il territorio sono materialmente costituiti dai loro esiti e dall'eco dei grandi exempla che in essi talvolta, ma non sempre, si riflette.
Diverso è il problema che ci si pone quando, con Michel Foucault(1), si costruisce ed ordina l'archivio con l'intenzione di indagare ciò che entro determinate condizioni locali, sociali, economiche ed istituzionali, il concreto esercizio di una professione quale quella dell'architetto e dell'urbanista, ha consentito di dire; quando il nostro sguardo interroga gli exempla raccolti in ordine alle suggestioni, agli stimoli, ai suggerimenti, ma anche ai limiti ed agli ostacoli che hanno incontrato nella città e nel territorio, nella cultura, nell'immaginario, nelle tecniche, nelle norme, nelle istituzioni e nelle relazioni tra soggetti ed istituzioni.
"Con questo termine non intendo la somma di tutti i testi che una cultura ha conservato in suo possesso come documenti del proprio passato, o come testimonianza della sua mantenuta identità… Ma à piuttosto ciò che fa sì che tante cose dette… Nascano secondo specifiche regolarità; insomma che, se ci sono delle cose dette – e soltanto quelle – non se ne debba chiedere la ragione immediata alle cose… O agli uomini che le hanno dette, ma al sistema della discorsività, alle possibilità e alle impossibilità enunciative che esso predispone. L'archivio è innanzitutto la legge di ciò che può essere detto, il sistema che governa l'apparizione degli enunciati come avvenimenti singoli. Ma l'archivio è anche ciò che fa sì che tutte queste cose dette… Non retrocedano con lo stesso passo nel tempo, ma che alcune che brillano forte come stelle vicine ci vengano in realtà da molto lontano, mentre altre nostre contemporanee sono già di un estremo pallore".
Si apre in questo caso un campo di indagine che rallenta l'attribuzione di valore a questo od a quel progetto o progettista e che cerca invece di scrutare il ruolo di uno specifico gruppo intellettuale e professionale entro la società del suo tempo.
Indipendentemente delle intenzioni dei loro autori, se osservati in questa luce, come elementi di questo particolare archivio, i progetti di architettura e della città escono ex post dall'auto-referenzialità come dall'etero-referenzialità della quale erano stati inizialmente caricati e vengono a collocarsi entro il contesto di relazioni sociali dislocate nel tempo che li hanno resi possibili od impossibili, "nell'ordine dello spirito o nell'ordine delle cose". Indipendentemente dai loro autori i progetti sono stati e verranno sempre giudicati da chi è stato esterno al processo della loro produzione per i modi nei quali hanno accolto ed accolgono o rifiutano le innumerevoli pratiche che percorrono la città e la società.
Scenario
Porre l'attenzione sulle condizioni di possibilità, o impossibilità, è, a mio modo di vedere, della massima importanza.
La modernità riteneva di essere dominata, come nel caso della biologia evoluzionista classica, dal caso e dalla necessità. Compito della ricerca, ivi compresa la ricerca progettuale, era mettere ordine nel caso secondo regole che nel loro rigore divenivano necessarie. Gran parte della storia dell'architettura e della città è stata sospinta da questa tensione seguendo nel tempo differenti criteri di razionalità.
La contemporaneità appare invece dominata dal vincolo e dalla possibilità, dalla esplorazione di ciò che è possibile entro vincoli che non sono totalmente esterni alla nostra azione e che non ci sono noti ex ante. Compito della ricerca, ivi compresa quella progettuale, è rendere chiaro un percorso tra i vincoli ed alla conquista del possibile.
L'archivio che sto proponendo di costruire diviene testimonianza di questo sforzo: del tentativo, ad esempio, di infrangere il vincolo delle risorse e delle tecniche disponibili, o quello dei rapporti di potere, della cultura, del gusto; di costruire una città nella quale diverse culture individuali e di gruppo possano rappresentarsi trovando i propri spazi.
I progetti che fanno parte del mio archivio, quelli realizzati quanto quelli che non hanno avuto modo di inverarsi, parlano di questo sforzo e delle sue strategie o della rinuncia, dell'adeguamento opportunistico, della sudditanza e come tali li osservo e studio.
Ciò che forse è più importante è che porre l'attenzione sul possibile da una parte, cambia la natura dell'etero-referenzialità dell'urbanista, costringendolo a confrontare i propri obiettivi con i concreti materiali fisici e teorici con i quali spera di raggiungerli, a ritrovarli all'interno della propria storia, a riconoscerne i criteri di loro modificazione e trasformazione, il proprio linguaggio, la propria struttura discorsiva, a costituirli come filtro tra sé e la società, un filtro che di volta in volta diviene metafora, memoria, concettualizzazione.
Chi osservi i profondi cambiamenti intervenuti nella migliore progettazione urbanistica negli ultimi anni riconosce l'inizio di questo percorso e non può che riconoscere che esso è cominciato quando l'urbanista ha ripreso nuovamente a parlare di urbanistica con le parole dell'architettura della città, ponendo una nuova attenzione al progetto di suolo, metafora preliminare ed aperta di ogni testualità territoriale e urbana. Una testualità soggetta ad una continua re-invenzione, non data a priori; che si costituisce nell'esperienza di ogni avventura progettuale, ma che, ad un livello concettuale, non di imitazione formale, muove un sapere antico accumulatosi lungo una storia fatta di un interminabile fuga di continuità e discontinuità.
Dall'altra, l'attenzione al possibile contraddice le tendenze alla chiusura auto-referenziale dell'architettura costringendola a scrutare il proprio esterno, cioè la città ed il territorio concepiti non come supporto indifferenziato, infinitamente malleabile, disponibile a qualsivoglia processo di colonizzazione e neppure concepibile, entro una nuova visione storicista, come insieme di tracce l'interruzione o proseguimento delle quali stia a noi decidere.
In questo senso nell'incerta esplorazione del possibile, cioè nella costruzione di scenari per la città ed il territorio, architettura ed urbanistica possono trovare un nuovo punto di incontro per ragioni non di superficie.
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