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Diario 09 | Generazioni
by Bernardo Secchi
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Ho sempre avuto una certa resistenza a ragionare in termini di generazioni: di architetti, di urbanisti o di altre figure. Vi ho sempre visto l'invito a scrivere la storia come successione di persone più che di movimenti. La storia della città, dell'architettura come quella dell'urbanistica mi sono sempre apparse connotate da ben altre forme di continuità e discontinuità.
Ad una certa età viene però naturale volgersi indietro ed interrogarsi sul senso dell'operato proprio e della propria generazione; di tutti quelli che, almeno in Europa, sono cresciuti ed hanno lavorato negli stessi anni. Per quanto mi riguarda, tra gli anni '60 del secolo scorso ed oggi.
La mia generazione in Europa ha attraversato, almeno sinora, un tempo privo di grandi avvenimenti drammatici ravvicinati; guerre e crisi sono state poste a distanza dal mondo che abbiamo conosciuto come urbanisti e nel quale come urbanisti abbiamo lavorato. Sino a tempi molto recenti, quando, come urbanisti, abbiamo praticato altre parti del mondo lo abbiamo per lo più fatto come "esperti", invitati od inviati da istituzioni governative o di ricerca.
Ma questo stesso tempo, anche se ci si limita al solo mondo occidentale od alla sola Europa, è stato pieno di cambiamenti radicali per quanto riguarda le città, i territori e le popolazioni che li abitano. Alcuni vi hanno visto l'uscita dalla modernità, altri il nascere di una nuova modernità. A questi cambiamenti, a me sembra, la mia generazione di urbanisti ha dato uno scarso contributo d'idee. La stessa cosa non può dirsi per chi ha operato in molti altri campi.
La mia generazione è nata all'urbanistica in anni di forte ed appassionata critica di un pensiero unico che per anni si riteneva l'avesse guidata. Nelle affrettate interpretazioni polemiche dell'inizio degli anni '60, l'imperfetta conoscenza del periodo precedente, delle sue radici, della sua articolazione e dei conflitti che l'avevano percorso portava ad identificarlo nei Ciam e nella Carta di Atene o, più genericamente, nell'urbanistica del Movimento Moderno e nelle sue estese applicazioni del dopoguerra. Agli occhi di chi intuiva i profondi cambiamenti che stavano per investire la società occidentale, la sua economia e le sue istituzioni, l'urbanistica moderna si faceva koinè, ma nel frattempo appariva riduttiva sul piano teorico e macchina banale su quello operativo.
Gli individui eterodiretti della società di massa, della "folla solitaria" di David Riesman, non potevano essere ridotti alle quattro funzioni dell'abitare, lavorare, ricrearsi e muoversi. L'articolazione dello spazio abitabile non poteva essere ricondotta a zone ove le quattro funzioni fondamentali eminentemente si rappresentassero attraverso specifici principi insediativi. Le dimensioni del welfare non potevano essere ricondotte a sia pur abbondanti dotazioni di spazi ed attrezzature. I processi che investivano il cantiere di costruzione della città e, più in generale, le relazioni tra urbanistica, istituzioni e potere non potevano essere pensate né entro la logica dello stato di sovranità, né entro quelle della società disciplinare. Entro la società, come nella città, diveniva sempre più riconoscibile il coagularsi di grumi solidi, di fatti urbani, che ne rendevano, come nel nouveau roman, più complessa, ma anche più significativa ogni descrizione. I movimenti e le inaspettate derive delle società occidentali proponevano temi e problemi che richiedevano conoscenze, strumenti critici, apparati teorici ed operativi ben più sofisticati di quelli proposti dall'urbanistica della prima metà del secolo.
La rivoluzione figurativa dei pionieri dell'architettura moderna, di una mitica generazione di grandi maestri della quale Pevsner e Giedion avevano scritto le loro differenti storie e che nello stesso periodo cominciava a scomparire, appariva paradossalmente in contrasto con l'idea, radicata nella società disciplinare e di fatto soggiacente all'urbanistica degli anni '50, di una società fatta di estese classi mosse da immaginari, valori ed istanze omogenee. Detto in altri termini l'urbanistica moderna appariva troppo carica di ideologie tra loro parzialmente contrastanti e con differenti radici, ove ai termini occorreva dare il significato con il quale Roland Barthes li utilizzava qualche anno prima: urbanistica e architettura, cercando di collocarsi al di sopra delle laceranti divisioni che avevano percorso l'Europa del periodo tra le due guerre, si auto-caricavano di scopi e compiti, sul piano politico e sociale, che non potevano raggiungere e svolgere. L'urbanistica moderna, anche agli occhi di chi ne riconosceva gli ineludibili legami con il più generale sistema economico ed istituzionale, non riusciva ad interpretare ed incrociare una società, una città ed un territorio che sempre più apparivano dissolversi in situazioni e gruppi riferibili a comportamenti differenti.
Gran parte della mia generazione, rifiutando termini come militanza o missione, ha cercato con rigore di depurare l'urbanistica delle sue contraddizioni ideologiche senza con ciò perdere l'impegno civile che da sempre l'aveva connotata. Missione, militanza ed impegno, nel senso sartriano del termine, hanno costruito invisibili spartiacque per gran parte della mia generazione.
Per questo essa si è aperta con curiosità ad altre discipline; insieme ad altre forme artistiche e ad altre aree di studio ha cercato di posare sulla città ed il territorio uno sguardo laico e preciso, di farsi archeologa della città e della società contemporanee ed al contempo di immaginare scenari di un loro futuro possibile; ha esplorato nuove strategie cognitive; si è immersa nella critica del pensiero unico quale emergeva dal conflitto e nelle defatiganti pratiche della partecipazione; ha attraversato con generosità e passione la crisi epistemologica che ha investito il pensiero occidentale negli ultimi decenni del secolo, rimettendo più volte in discussione il proprio statuto ed i propri legami con il potere. Lungo questo faticoso viaggio di formazione collettiva, fatto di tanti e diversi percorsi individuali, la mia generazione ha spesso anticipato temi e problemi che sarebbero divenuti il cavallo di battaglia di altri ricercatori e di altre discipline. Nel contempo l'area di studio dell'urbanista si è enormemente dilatata; l'urbanista, rifiutando ogni rigida divisione del lavoro di ricerca e progettuale è divenuto spesso una figura eccessiva, ma è rimasto anche, nelle parole di Edgar Morin, una delle poche "teste ben fatte".
Al termine di questo percorso la mia generazione di urbanisti ed architetti deve però confrontarsi con un nuovo pensiero unico ed un nuovo eccesso di ideologia. Tutti i suoi sforzi appaiono essere stati vani, in qualche caso utilizzabili in modi perversi. Nella banalizzazione del linguaggio di fine secolo il nuovo pensiero unico assume le vesti mitiche di un mercato spesso contraffatto e le sembianze, ad esse coerenti, di immagini affascinanti e prive di specifici referenti sociali.
Assai più agguerrita sul piano culturale, ma priva di un'idea che si faccia progetto condiviso per la città ed il territorio la mia generazione sembra incapace di una adeguata ed efficace reazione: si ritira dal campo, rinnega l'idea stessa di progetto o la pratica in modi retorici, si adatta al compromesso e si abbandona ad un pragmatismo opportunista privo di direzione; in qualche caso abbraccia apertamente i nuovi miti. Come mai?
Le risposte possono essere molte. Architettura ed urbanistica sono divenute, nelle parole di Pierre Bourdieu, "campi" sempre più aperti, nei quali è difficile che si vengano a costruire stabili sistemi di autorevolezza, processi cumulativi di sperimentazione, anche solo posizioni cui venga riconosciuta la possibilità ed il tempo di esprimersi compiutamente e ciò contrasta con la grande inerzia dei materiali che esse cercano di modificare o trasformare. I legami che esse inevitabilmente intrattengono con l'amministrazione pubblica, la politica ed il mercato sembrano far sì che le incertezze ed il disorientamento che, almeno in Europa, hanno dominato l'ultima parte del secolo ventesimo in queste aree abbiano reso estremamente precario ed instabile il rapporto tra urbanistica, architettura e società del nostro tempo.
Ma forse tutto ciò non spiega la posizione marginale assunta dall'urbanistica nell'ultima parte del ventesimo secolo. Al fondo a me sembra che la mia generazione non abbia ben compreso due questioni fondamentali interpretandole spesso in modi riduttivi e banali.
Da una parte la mia generazione non ha compreso che il dilagare del fenomeno urbano su interi continenti costruiva ed era l'esito di una nuova cultura e di una nuova idea dello spazio. Un'idea di grossraum, nel senso che al termine dava Carl Schmitt, che non consentiva di pensare al dilagare urbano come alla semplice prosecuzione della crescita della metropoli moderna. Peter Hall collegava alcuni anni orsono il dilagare del fenomeno urbano alle nuove tecniche della mobilità e della comunicazione, come in parte faceva anche Schmitt; ma in quest'ultimo troviamo una maggior profondità storica ed una maggior stratificazione dei livelli di analisi. Il grossraum contemporaneo, dilatato sino a coprire l'intero pianeta e discontinuo come lo è una pelle di leopardo, praticato da ogni soggetto per punti più che per aree, annulla l'idea di una frontiera, di un limes, che si sposti sempre più in là conquistando terreno alla "campagna". Esso è esito e supporto di nuove strategie biopolitiche; i diversi soggetti vi depositano con tecniche mutuate dai militari i propri logo ed i propri simboli commerciali o di status sovrapponendoli ad un palinsesto di segni più antichi e radicati nei quali si condensano lunghe tradizioni e differenti culture e che alla nuova idea dello spazio oppongono resistenza. L'urbanizzazione del mondo non segue più le regole delle tradizionali teorie della localizzazione e della crescita urbana, ma le piega ai dettami di nuove strategie di controllo esaltate dalle retoriche della paura e della sicurezza: controllo delle aree di mercato, controllo dei gangli nevralgici della rete della mobilità e della comunicazione, controllo dell'ecologia urbana e dello spazio abitabile come nei casi limite, ma sempre più frequenti, delle gated communities.
Dall'altro canto la mia generazione di urbanisti neppure ha compreso appieno la natura del potere democratico che è fatta contemporaneamente di decentramento e concentrazione. Ad esempio, ha gravemente sottovalutato le dinamiche che investivano il fascio di desideri e bisogni nel quale si condensa e rappresenta pro-tempore l'identità di ogni soggetto e di ogni gruppo sociale; ha sottovalutato in particolare il fatto che lo stesso fascio di desideri e bisogni si costruisce in gran parte, per usare le parole di Martin Walzer, entro associazioni involontarie, entro una dinamica culturale che non può essere disgiunta dallo sviluppo delle tecniche della mobilità e della comunicazione e dal dilagare e disperdersi del fenomeno urbano. Riducendo l'espressione del potere democratico alla sola sfera della partecipazione la mia generazione di urbanisti ed architetti, in buona o dubbia fede, ha rinunciato a confrontarsi, se non retoricamente, con questo spessore assai più duro di problemi.
La città, vorrei dire la società, si è sempre costruita a partire da un progetto, spesso implicito, che ne indicasse il punto di fuga. Esso è stato di volta in volta costruito a ridosso di esigenze di difesa dalla natura o dal nemico, dai limiti delle tecniche e delle risorse disponibili, dalla volontà di rappresentazione ed auto-rappresentazione del potere, dalla volontà di disciplinare e controllare la società o le sue aree strategiche. Ogni epoca ha alla fine rappresentato nel proprio progetto di città la propria idea di spazio e ciò ha fatto agendo sugli immaginari ed i comportamenti collettivi attraverso disegni ove si rappresentava quella stessa idea di spazio: racchiuso entro la finitudo medievale, proteso alla conquista dell'infinito in epoca barocca, sottoposto ad una disciplina apparentemente uniforme nella città industriale. Sottovalutare l'importanza di queste immagini ed i processi per i quali esse sono divenute immagini mentali entro le quali intere società si riconoscevano è stato forse l'errore più grave della mia generazione.
Per lungo tempo essa ha nutrito forti sospetti nei confronti del disegno nell'accezione più ampia del termine nascondendo forse in questo atteggiamento la mancanza di una propria idea circa il futuro della città e del territorio adeguata alla nuova epoca. Soffrendo nei confronti del disegno di un vivo quanto immotivato senso di colpa, l'ha indebitamente contrapposto a regola, a procedura, a comportamento. Di fronte alla complessità del cantiere di costruzione della città, nell'evidente assenza ed impossibilità di un'autorità cui affidare il carattere unitario del proprio progetto, nell'evidente imbarazzo ad accettare un ruolo di rappresentazione acritica della società disciplinare, la mia generazione di urbanisti ha ritenuto che il diritto fosse il più solido elemento di mediazione tra progetto e società e si è affidata all'architettura delle istituzioni, delle norme e delle procedure; uno strato che nel tempo si è espanso e dilatato sino a soffocare progetto e società.
Ogni tanto penso alla mia generazione di urbanisti come ad una stoica generazione suicida.
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