San Polo. Laboratorio o Quartiere modello? | 1986
Only a late comer satellite neighbourhood?
Ruben Baiocco
Il filmato voluto e fatto realizzare da Michele Sernirni nel 1986 è dedicato “all'ultimo e più significativo” intervento unitario di edilizia pubblica residenziale del Novecento in Italia: il quartiere San Polo a Brescia, progettato dall’architetto Leonardo Benevolo intorno al 1980 e con una realizzazione protrattasi a lungo nel tempo, dopo una prima accelerazione iniziale.
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Per Sernini, nell’anno in cui realizza il documentario, ci sono vari motivi per considerare San Polo “l'ultimo” quartiere pubblico integrato e nel farlo sfiora l'intuizione profetica; dai primi anni novanta l'investimento sull'edilizia residenziale pubblica imbocca, infatti, definitivamente la sua fase calante. É l'ultimo, perché rappresenta per l'autore il culmine della tradizione del progetto urbanistico modernista e allo stesso tempo perché è la fine della pratica che vuole che i nuovi quartieri residenziali pubblici siano collocati a distanza dai nuclei storici consolidati.
Pensati come potenzialmente autonomi e in grado di fare città – o in sostanza di farne a meno – i nuovi quartieri confidano, infatti, nell'ortodossia del buon disegno e del corretto dimensionamento quantitativo e funzionale.
É l'ultimo, infine, perché rappresenta un “estremo”, politico e disciplinare, del progetto urbanistico di quartiere integrato in Italia, dove favorevoli condizioni politiche e un contesto sociale ed economico maturo e in sviluppo, incrociano una non discutibile competenza del progettista, rappresentativa della più evoluta cultura disciplinare nazionale, sintesi di figure progettuali mutuate e reinterpretate da un'accorta valutazione delle più significative e consolidate esperienze nordeuropee e nordamericane. La realizzazione del progetto per San Polo può essere considerata un vero e proprio distillato di soluzioni razionalmente e tecnicamente pertinenti sul piano teorico e dei modelli di riferimento dal punto di vista dei tipi edilizi, delle soluzioni architettoniche, della distribuzione locale, delle dotazioni urbanistiche, già testate in altri contesti. I suoi effetti concreti, però, sul grado di vivibilità, sulla prospettiva della creazione del senso di comunità, sulla confortevolezza delle pratiche quotidiane, date le buone premesse e le rilevanti quantità di suolo e abitanti messe in gioco, lo rendono un caso estremamente “significativo”, del definitivo tramonto di una tradizione disciplinare di cui ambiva essere un'interprete privilegiato.
La rappresentazione che Michele Sernini fa del quartiere con il suo filmato, nonostante il linguaggio filmico tradizionale del documentario e i limiti della strumentazione tecnica allora disponibile, appare ancora oggi efficace nel restituire il senso dell'esperienza dei luoghi da parte degli abitanti, dei limiti delle prescrizioni di progetto e dei suoi effetti paradossali: soluzioni architettoniche raffinate producono disagio negli utenti; percorsi pensati per connettere si dimostrano un involontario strumento di separazione di grande efficacia; spazi volutamente comuni diventano un manifesto della rarefazione dell’interazione sociale. Osservati dall'occhio orientato della cinepresa, dalla voce narrante dell'autore che si cala nel luogo in un'osservazione partecipante - quasi fosse una nuova pratica di progetto - e commentati insieme ai suoi abitanti, il quartiere e i suoi spazi rendono auto-evidenti le criticità di fruizione sia nella dimensione privata dell'alloggio che dello spazio collettivo e comunitario.
Il titolo di questo documentario è evocativo, allusivo e volutamente ambiguo di ciò che guida l'autore nell'esperienza dell’interpretazione filmata di un quartiere: San Polo, laboratorio o quartiere modello?
Il documentario apre con una voce narrante che, accompagnata da viste panoramiche sul quartiere (quasi aeree), rende subito esplicita la tesi dell’estraneità delle soluzioni spaziali rispetto al luogo e alla vita dei suoi abitanti.
Descrizione per immagini e narrazione proseguono quasi nella forma della scheda analitica, ma con continui “chiasmi” che mettono in luce l’ “apparente contraddizione” fra senso di ciò che si può osservare e ascoltare per voce di qualche abitante e senso del progetto. Lo scopo è evidentemente didattico. Il corso di analisi delle strutture urbane e urbanistiche è l’orizzonte entro cui collocare tale intento, ma solo temporaneamente. Subito dopo, i possibili referenti si ampliano: progettisti, cultori della disciplina, amministratori locali e gli stessi abitanti. La pratica della descrizione filmata diventa un vero è proprio progetto comunicativo sui rischi in termini sociali, oggi diremmo anche economici, di un atteggiamento disciplinare che tende ad associare sulla carta, in un disegno, realtà costruita e realtà delle interazioni sociali, dandone per scontato la facile sovrapposizione.
Nessuna negoziazione sulle scelte tipologiche, sulla definizione degli spazi connettivi e sulla localizzazione dei servizi collettivi (solo il verde lascia spazio agli abitanti) e una certa nonchalance sulla scelta dei materiali degli alloggi, successivamente emerse come problematiche rivendicate dai nuovi abitanti, fanno dire a Sernini, in una delle auto interviste, che “abitare è una cosa così importante che non si può lasciare esclusivamente ai professionisti e ai soli addetti ai lavori, ma bisogna veramente [cominciare a pensare di] coinvolgere gli abitanti e la gente comune”: siamo nel 1986. In questo caso, dove la discussione sul progetto è a posteriori, la rappresentazione filmata è scelta come strumento di presa di coscienza, aggregante rispetto alle diverse opinioni, per la capacità di mostrare con la “verità” – seppur filmica – dell’esperienza dei luoghi privati, pubblici, collettivi, della reale aggregazione e della costrizione comportamentale, tutte le sfumature - nuances - che un progetto disegnato sulla carta o restituito in un articolo, difficilmente possono contenere. Contraddizioni, incoerenze, chiasmi, differenti interpretazioni dello spazio fisico e sociale, possono co-abitare la rappresentazione filmata – quasi a dimostrare che sia proprio questa a produrre un tale risultato – restituendo un senso di realtà più accettabile perché più aperto al confronto e per la costruzione di un discorso non totalizzante. A questo proposito, vale la pena prestare attenzione anche alla singolare modalità argomentativa della voce narrante fuori campo e al ruolo che le è assegnato in termini di ricerca sul “linguaggio” del futuro “discorso” urbanistico: il lessico strettamente disciplinare che accompagna le immagini in movimento, pur calibrato ai fini di un’efficace comunicazione non autoreferenziale per la descrizione tecnica pertinente del quartiere, è dinamizzato e concede ospitalità, all’interno della propria narrazione e al fine di renderla più inclusiva, locuzioni, apparentemente poco ortodosse ma in realtà essenziali, riferibili alla percezione e all’esperienza che degli spazi abitati del nuovo insediamento satellite è possibile fare.
Il quartiere, alla luce di questa interpretazione audio-visiva, è sintesi insuperabile e “irripetibile” di un “modello” astratto e razionale di sviluppo della città e allo stesso tempo della criticità – se non dell’effettivo tramonto - di una certa pratica urbanistica che non trova la sua legittimizzazione alla luce degli effetti che produce sulla vita degli abitanti. È “laboratorio”, perché forse il destino dell'urbanistica è comunque legato ai suoi esperimenti e ai suoi fallimenti.
Un progetto realizzato è comunque un luogo in cui con nuovi mezzi di rappresentazione, interpretazione e comunicazione fra i soggetti in gioco, può rinascere la speranza, mai scontata, di una prospettiva praticabile di inclusione nel processo progettuale dei suoi fruitori e delle energie volte alla socializzazione di cui essi sono comunque portatori. E’ ciò che sembra voler suggerire il fotogramma in chiusura: ragazze e ragazzi che, invece di collocarsi negli appositi spazi comuni destinati alle relazioni, s'intrattengono davanti ai garages al piano terra delle unità abitative, rendendo quello spazio molto più vivo e partecipato di quanto lo avesse potuto immaginare il progettista. Era il 1986, questa è solo una delle interpretazioni possibili e rimane da chiedersi cosa si troverà, tornando oggi a San Polo. In ogni caso, questa è una interessante visione.
Ruben Baiocco
Università IUAV di Venezia, Venezia, Italy
E-mail: baiocco@iuav.it
Planum
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