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Diario 02 | Welfare
by Bernardo Secchi
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A partire dagli anni '70 welfare e welfare state sono divenute parole allusive a politiche ed istituzioni sottoposte a dure critiche se non ad irrisione. Tensioni ed utopie degli anni '70 sembravano indicare l'insufficienza di politiche riformiste attente a correggere e migliorare il funzionamento delle principali istituzioni, mentre l'esperienza che delle politiche del welfare avevano fatto i maggiori stati occidentali mostrava l'insufficienza se non la perversità d'ogni tentativo di definizione delle dimensioni del benessere che potesse aspirare ad attraversare in modi trasparenti vasti gruppi sociali e territori. Soprattutto fu sottoposta a giusta critica in quegli anni la banalizzazione determinista cui si era ingenuamente riferita molta pratica urbanistica dei decenni precedenti. Entrambe le critiche ebbero effetti, forse non voluti, assai importanti. Tanto il riformismo politico, quanto la disciplina urbanistica, si trovarono improvvisamente privi di un riconoscibile statuto nonché della vasta legittimazione che li aveva connotati ed in parte associati nei decenni precedenti.
Ma ciò nonostante, con termini diversi, più articolati e sofisticati, del welfare e delle sue nuove dimensioni si è continuato a discutere ed il vecchio determinismo, sia pure in forme meno banali e riduttive, non ha del tutto abbandonato le politiche della città e del territorio. Uno degli effetti positivi è stato forse quello di salvare gli urbanisti dalle derive autoreferenziali che hanno connotato nello stesso periodo molti interventi nella città occidentale. L'idea che le pratiche urbanistiche trovino la loro principale fonte di legittimazione nella ricerca di migliori condizioni di vita per una parte consistente della società; l'idea dell'urbanistica come parte rilevante della bio-politica, come insieme di azioni che hanno evidenti e controllabili conseguenze sulla vita di una popolazione; l'idea che popolazione sia termine inscindibile da territorio, che di ogni politica debba essere considerata la dimensione spaziale, non può certo essere ascritta ad un banale determinismo ambientale.
Due principali filoni di ricerca a me sembra abbiano mantenuto viva l'attenzione alle dimensioni concrete del benessere individuale e collettivo proponendole come dimensioni anche dell'azione politica e, per una parte assai rilevante, della politica urbanistica. Il primo ha indagato quotidiano e storia del presente, il secondo i processi di progressiva democratizzazione delle società e dei territori occidentali.
• Il primo filone ha coinvolto sociologi, etnologi, antropologi, ma anche fotografi, cineasti, scrittori e, naturalmente, urbanisti; ha prodotto un gran numero di descrizioni di case studies che, osservando da vicino il mutamento intercorso nelle società e nei territori europei ed occidentali, ha modificato radicalmente i modi nei quali le domande individuali e collettive nei confronti della città e del territorio sono oggi indagate e concettualizzate. Proponendo un gran numero di immagini, sfiorando di continuo il rischio di un'estetizzazione del presente, queste ricerche hanno mostrato come il benessere individuale e collettivo si situi all'incrocio di pratiche e di forme d'uso del tempo e dello spazio assai più variegate, articolate e complesse di quelle che connotavano la società e la città industriale sino a tutta la prima metà del ventesimo secolo. La politica del welfare è stata sospinta non solo ad allungare la lista dei campi di intervento, a pensare a nuove e più numerose attrezzature e luoghi deputati, a loro migliori prestazioni, quanto a prendere atto di come l'enorme frammentazione delle società contemporanee renda difficile se non impossibile definire le dimensioni del welfare una volta per tutte, entro una norma valida per ogni territorio e per ogni popolazione; di come la stessa idea di welfare pervada oggi ogni aspetto della vita individuale e collettiva, dalle attività produttive a quelle del consumo e del loisir; di come la stessa idea venga intesa differentemente dai diversi gruppi generazionali, culturali, etnici e locali; di come le diverse idee di welfare che i differenti gruppi coltivano possano entrare tra loro in conflitto. L'insieme delle ricerche raccolte da Pierre Bourdieu ne La misère du monde e le ricerche sul campo che ogni urbanista consapevole ha potuto svolgere negli ultimi decenni ne sono un esempio.
• Il secondo filone ha ricevuto un'attenzione assai minore anche se tutti sono convinti, al di là delle vicende congiunturali dei diversi paesi e territori, che la seconda metà del ventesimo secolo abbia corrisposto ad una progressiva democratizzazione delle società occidentali, cioè ad una modifica spesso radicale della mappa dei valori condivisi con una progressiva perdita di importanza di tradizionali valori posizionali; ove i termini debbono essere intesi alla R. Harrod e F.Hirsch. Per fare solo alcuni esempi, diminuzione del valore del titolo di studio da una parte, del valore di una posizione entro la città dall'altra; diminuzione però anche del valore civile attribuito all'architettura degli edifici, dei luoghi e della città.
I due movimenti che ho sinteticamente richiamato, che non sono certo gli unici che percorrono le società ed i territori contemporanei, hanno rimesso in discussione l'idea che ci eravamo fatti e cui avevamo dato veste istituzionale, di interesse generale, collettivo e pubblico, ove i tre termini non sono sinonimici e riguardano di volta in volta aspetti e parti della società differenti. Rimettendo in discussione questi termini essi hanno scosso dalle fondamenta gran parte dell'edificio istituzionale dello Stato moderno e posto l'esigenza di sue urgenti riforme. Tra queste anche una riforma dei modi dell'urbanistica, dei modi cioè di guidare le trasformazioni e modifiche della città e del territorio, delle condizioni materiali cioè entro le quali le aspirazioni e le immagini di un concreto benessere individuale e collettivo si costruiscono.
In molti paesi la questione viene affrontata in modi riduttivi: spostamento della linea di demarcazione tra pubblico e privato con una forte spinta alla privatizzazione di servizi ed attrezzature che la modernità ed il welfare state avevano affidato ad un settore pubblico che si è peraltro dimostrato, nella generalità dei casi, sempre meno efficiente; diffidenza nei confronti delle dimensioni collettive della società o di sue parti agitando in modi rozzi e strumentali ogni forma di paura metropolitana; identificazione degli interessi generali con il raggiungimento di posizioni aggregate eminentemente definite in termini di targets finanziari. Sono queste le mosse attraverso le quali si passa, per usare le parole di M. Foucault, da una società disciplinare, ben rappresentata dall'urbanistica moderna, ad una società del controllo, ben rappresentata da molte politiche urbane contemporanee. Non si possono nutrire dubbi circa gli scopi di queste politiche in contesti ove qualcuno addirittura pensa di poter tornare ad una società di sovranità: accentuazione dei meccanismi di selezione/esclusione, ri-gerarchizzazione della società, ri-acquisizione di importanza di vecchi e nuovi valori posizionali.
La principale strategia della società disciplinare consisteva, nelle parole di G. Deleuze, nel "concentrare, ripartire nello spazio, ordinare nel tempo, comporre nello spazio-tempo una forza produttiva che"- come nella città moderna- "dia un risultato superiore alla somma delle forze elementari". Obiettivi che, ad esempio, l'urbanistica moderna ha cercato di ottenere attraverso un'organizzazione discorsiva che si faceva sempre più simile a quella delle scienze dure, protesa a legittimare politiche di identificazione, separazione ed allontanamento/avvicinamento solitamente indicate per brevità con il termine di zoning. La crisi del welfare state è stata la crisi di tutti i luoghi di "internamento", la famiglia, la scuola, l'ospedale, la fabbrica, il carcere e delle politiche, ivi comprese quelle della città, che si fondavano sulla ripartizione nello spazio e sull'ordinamento nel tempo.
La strategia principale della società del controllo è invece la modulazione, la costruzione continua di situazioni metastabili, la richiesta di flessibilità e di permanente adattamento, il rifiuto come inutile briglia di ogni idea di piano o programma di medio e lungo termine. Alle istanze della società le politiche del controllo rispondono con una lista provvisoria e sempre aperta di opere ed interventi, con un forte investimento comunicativo, non con programmi ed azioni logicamente concatenati nello spazio-tempo e con loro criteri di valutazione. Chiunque abbia presente le odierne politiche urbane europee e le loro differenze non può che riconoscere in questi termini loro frequenti connotati. Il principale racconto della società disciplinare terminava con il riscatto e l'emancipazione dei meno favoriti dalla storia, dal mercato o dalla fortuna, con una sempre maggiore diffusione dei diritti di cittadinanza; quello della società del controllo inizia con la moltiplicazione di immagini stupefacenti nelle quali si rappresenta l'accelerazione del progresso tecnico, lo stato di imprevedibilità ed incertezza cui esso dà luogo, le paure che genera ed il bisogno di sicurezza che può indurre a rinunciare a parte di ciò che veniva considerato un diritto civile acquisito.
La città ed il territorio sono uno dei campi nei quali questo passaggio si costruisce e produce. Certamente le modifiche del mercato del lavoro o dei grandi ordinamenti giuridici ed istituzionali attirano un'attenzione maggiore, ma la città ed il territorio sono anche il luogo ove gli individui ed i gruppi sociali silenziosamente compiono sforzi concreti di ridefinizione della propria idea positiva di welfare e della propria mappa di valori. Vale la pena di prestare loro maggiore attenzione.
L'immensa distesa di casette mono-bi-tri-famigliari, isolate od a schiera, con un piccolo giardino che copre gran parte del continente non è, ad esempio, l'espressione di un'utopia piccolo borghese, quanto, in moltissimi casi, la ricerca di un welfare prevedibile, sicuro e stabile che ha come proprio punto di fuga valori diversi da quelli storicamente inseguiti dalla maggior parte della popolazione della città industriale. Anche il localismo degli ultimi decenni, nelle sue manifestazioni concrete e quotidiane, la ricerca di insegnanti, medici, infermieri, direttori delle agenzie di credito, funzionari ed amministratori conosciuti perché provenienti dallo stesso contesto locale, culturale e sociale deve essere ascritto a questa ricerca: è il tentativo di sottrarsi, almeno in parte e per quanto riguarda alcune dimensioni della propria vita affettiva e produttiva, alle strategie, ai meccanismi ed ai rischi della società del controllo. All'estraneità ed anonimato di questi meccanismi una parte della popolazione europea ha contrapposto il rafforzamento di relazioni interpersonali fondate sulla reciproca conoscenza e fedeltà con ciò producendo una città in alcune sue parti radicalmente diversa dalla città moderna.
Cose analoghe possono essere dette per altre parti di città e territorio. Esse dovrebbero convincere a ritornare alla costruzione di politiche in termini reali anziché quasi unicamente monetari, pazientemente ricostruendo su basi più concrete motivazioni e consensi che oggi sono spinti e tendono a consolidarsi entro terreni immaginari. Le politiche urbanistiche, con la loro necessaria aderenza alla fisicità della città e del territorio, possono aiutare a recuperare queste dimensioni e proprio per questa ragione dovrebbero essere poste più vicine al centro di attenzione di ogni politica seriamente riformista.
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